di Valentina Chinnici
“I concetti creano gli idoli. Solo lo stupore conosce” scriveva nel IV secolo Gregorio di Nissa.
D’altro canto il connubio tra stupore e conoscenza risulta autentico leit motiv del pensiero filosofico già a partire da Platone e Aristotele. Più precisamente lo stupore, inteso come capacità di meravigliarsi (thaumàzein), è individuato dai due filosofi greci come l’origine stessa e la causa prima (arché) della filosofia. Così si esprime Platone: “Infatti, è proprio tipico del filosofo quello che tu provi, l’essere pieno di meraviglia: il principio della filosofia non è altro che questo”, mentre Aristotele chiosa: “Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia”.
Lo stupore tende a configurarsi pertanto come un’emozione positiva, che, dopo un primo stordimento, prepara il terreno alla conoscenza: “una sorta di effetto d’urto che le cose hanno su di noi cogliendoci in qualche modo sprovveduti e che ha il potere, dopo l’iniziale tramortimento, di predisporci in modo attivo al conoscere. In quanto legato all’incontro-scontro con la novità, lo stupore è un sentimento primigenio. Esso corrisponde a quella sensibilità iniziale che è del bambino di fronte agli oggetti nuovi che egli scopre nelle cose più comuni, per noi indifferenti, del mondo che ci circonda” (Xodo).
Oltre che del filosofo, lo sguardo stupito è tipico dell’artista e dello scienziato, che sanno cogliere la bellezza della realtà che ci circonda; scrive infatti Rubbia: “Quando noi guardiamo un fenomeno fisico particolare, ad esempio una notte piena di stelle, ci sentiamo profondamente commossi, sentiamo dentro di noi un messaggio che ci viene dalla natura che ci trascende e ci domina. Questa stessa sensazione di stupore, di meraviglia, di rispetto che ciascuno di noi prova di fronte a una manifestazione naturale, lo specialista, il ricercatore che vede l’interno delle cose lo sente ancora più forte, molto più intenso. La bellezza della natura, vista dall’interno e nei suoi termini più essenziali, è ancora più perfetta di quanto appaia esternamente; l’interno delle cose è ancora più bello che l’esterno, quindi io non sento né sgomento né paura. Sento la curiosità e mi sento onorato di poter vedere queste cose, fortunato perché la natura è effettivamente uno spettacolo che non si esaurisce mai”.
Tale stupore, proprio del filosofo, dello scienziato, dell’artista, appare dunque condizione privilegiata, che innesca un dinamismo virtuoso, mettendo in movimento l’intelletto e la creatività della persona che ne fa esperienza. Non solo. Come sostiene Martha Nussbaum, “lo stupore gioca un ruolo importante nello sviluppo della capacità di amare e provare compassione nel bambino. I bambini le cui capacità di reagire in questo modo al mondo sono rafforzate attraverso il gioco dell’immaginazione avranno una più forte capacità di provare amore non possessivo, e di portare altre persone lontane entro il proprio complesso di fini e progetti”.
Eppure lo stupore si porta dietro un carico di ambiguità semantica, che affonda le sue radici nell’etimologia stessa del termine, e che ha portato talvolta a operare una distinzione tra stupore positivo e stupore negativo.
Scopo di queste brevi note è di mostrare come il concetto moderno di stupore non sia del tutto sovrapponibile a quello antico, in particolare a quello dei Romani, dalla cui lingua il termine italiano deriva direttamente. Faremo dunque una breve incursione in alcuni autori latini, sulle tracce di una parola estremamente polisemica, che ha lasciato comunque la sua impronta in molti ambiti di studio e di esperienza della nostra vita.
Quale stupore?
Occorre, per cominciare, fare chiarezza sull’oggetto del nostro interesse, cercando di circoscriverlo in modo più preciso. Lo stupore si pone, in effetti, al crocevia di molteplici emozioni, con cui spesso viene confuso, poiché esso costituisce, non di rado, un elemento importante di altre emozioni.
In una nota al suo poderoso studio sulle emozioni, Martha Nussbaum afferma: “Lo stupore e la venerazione sono emozioni affini, ma diverse: lo stupore spinge all’esterno, è esuberante, mentre la venerazione si associa all’inchinarsi, al farsi piccoli. Nello stupore io voglio saltare e correre, nella venerazione inginocchiarmi”. Ma di quale stupore parla la studiosa americana? L’autrice stessa sente l’esigenza di chiarire che lo stupore di cui sta trattando va inteso come wonder, che in italiano può intendersi meglio come meraviglia. Più affine semanticamente all’italiano stupore è invece l’anglosassone astonishment, che al pari del tedesco Staunen rinvia all’atto di bloccarsi, di restare “di pietra” (ingl. Stone; ted. Stein), accezione insita nella radice latina del verbo stupere. Esattamente il contrario, almeno a prima vista, del “correre e saltare” scaturito dal wonder anglosassone.
In latino, la persona stupita è innanzitutto stata “colpita” da qualcosa, che ha visto o ascoltato, e questo colpo ha un effetto appunto paralizzante, di ottundimento dei sensi, la cui prima manifestazione è non a caso il mutismo. Per comprendere meglio il concetto latino, si potrebbe ricorrere paradossalmente a una esegesi di stampo manzoniano: quella Terra personificata che il 5 maggio, alla notizia della morte di Napoleone, resta “percossa e attonita”, “muta pensando all’ultima ora dell’uom fatale”.
Lo stupitus è dunque colui che resta sconvolto e sbigottito più che semplicemente meravigliato o sorpreso. I sentimenti con cui il suo stupore si mescola possono essere i più vari, spaziando in tutto il registro emotivo, con particolare riferimento al dolore e alla gioia, alla paura e all’amore.
Nella lingua latina stupor sembra allora rappresentare una vox media, ossia una di quelle parole dall’accezione neutra, che si connotano in modo positivo o negativo sulla base del contesto in cui vengono impiegate.
Stupiti o stupidi?
Sin dalle origini, i confini di stupor si intrecciano fino a confondersi con la stupidità. Stupido è in effetti termine antico (anch’esso originato dal verbo stupeo), il cui significato iniziale è proprio “stordito, sbalordito”, come mostra ad esempio il commediografo Plauto nella commedia Epidico, v. 583: “Perché resti sbalordita? (stupida) Perché taci?”. L’aggettivo rimanda a quell’ottundimento dei sensi che si può avere per esempio cadendo in un “sonno profondo”, uno stupidus somnus appunto, come dice il tragediografo Accio (trag. 611).
Ancora Dante Alighieri userà “stupido” nel senso di “stupefatto” descrivendo la reazione del “montanaro” che ammutolisce di fronte allo spettacolo offertogli dalla città:
“Non altrimenti stupido si turba/lo montanaro, e rimirando ammuta,/quando rozzo e selvatico s’inurba” (Pg. XXVI, vv. 67-69).
A loro volta, due autori come Cicerone e Catullo usano invece stupor per esprimere il proprio disprezzo verso uomini appunto stupidi. Ecco cosa annota l’oratore latino, a proposito di un uomo soprannominato Bambalio (Tartaglione):
“Un uomo da nulla, un essere spregevole quant’altro mai, a cui balbuzie e stupidaggine (propter haesitantiam linguae stuporemque cordis) hanno procurato lo scherno di quel soprannome”.
Ancora più tranciante il giudizio di Catullo, 1,17,20-24:
“Lui sente tutto come se il tutto fosse nulla, è stupore d’assenza, senza vista né udito, non sa neanche chi è o se c’è o se non c’è. Ecco, dal ponticello fallo cascare giù, chissà che non si svegli di colpo dal letargo”.
A proposito di letargo, occorre rilevare come “stupore” in latino formi spesso una diade con “torpore”. E’ la sgradevole sensazione provata ad esempio dai Romani, nell’episodio delle Forche Caudine narrato dallo storico Tito Livio: “Allora si fermano senza che alcuno ne abbia dato l’ordine, e tutti si sentono invadere l’animo dallo stupore e le membra da una specie di insolito torpore, e guardandosi l’un l’altro, ciascuno pensando che il compagno sia più in grado di padroneggiarsi e di riflettere, rimangono a lungo immobili in silenzio”.
A sua volta, il poeta Ovidio usa significativamente i due termini per rendere il proprio stato di prostrazione psichica, in seguito all’esilio comminatogli da Augusto sul Mar Nero, quasi a descrivere una sintomatologia depressiva, che lo priva anche della capacità di piangere:
“Le lacrime non hanno fine, se non quando sono bloccate dallo stupore, e un torpore simile alla morte mi stringe il petto”.
Questa sindrome da “stupore letargico” ha lasciato significative tracce nella nostra lingua, tanto che non a caso, a tutt’oggi, stupore è termine tecnico del linguaggio medico, associato ancora una volta al torpore, come si legge ad esempio nel Dizionario di medicina Treccani 2010, che alla voce “stupore” recita come segue: “Stato di arresto completo della motilità volontaria associato a rallentamento o torpore dell’attività ideativa e a un distacco dalla realtà esterna. Stati stuporosi si possono osservare nel corso di malattie infettive, nell’ipertensione endocranica, come conseguenza di gravi disturbi circolatori cerebrali oppure in malattie tipicamente psichiatriche, quali la demenza, gli stati confusionali in genere, l’alcolismo acuto e cronico, le sindromi depressive e melanconiche e la varietà catatonica della schizofrenia, nella quale lo s. acquista il significato di disturbo propriamente psicomotorio”.
Eziologia dello stupore: l’amore, il timore, la gioia
Narra Virgilio che quando Didone vide per la prima volta Enea ne rimase immediatamente colpita.
Per descrivere l’incanto del colpo di fulmine più celebre della letteratura latina, il poeta augusteo sceglie il verbo dello stupore: Obstipuit primo aspectu Sidonia Dido. “La Sidonia Didone restò attonita anzitutto al vederlo”.
Come rileva il filologo Alfonso Traina, il verbo latino “stupeo (di cui obstupesco è l’incoativo) è più che ‘essere stupito’, è lo stato psicosomatico che consegue a uno spettacolo o a una notizia paralizzante: qui l’improvvisa apparizione di Enea, simile all’epifania di un dio”.
D’altronde si tratta di un topos letterario ricorrente: infatti, “la connessione ‘vidi e stupii’ ha una connotazione inevitabilmente erotica, fin da Omero: Odisseo confessa a Nausicaa che la vista di lei lo lascia stupito, meravigliato e anche un po’ impaurito (Od. VI 161 e 168)” (L. Graverini).
Ancora in contesto erotico ritroviamo lo stupore dell’elegiaco Properzio, di fronte alla visione della sua Cinzia dormiente: obstipui: non illa mihi formosior umquam/visa “Rimasi abbagliato: non mi era mai apparsa così bella”. Anche in questo caso lo stupore si manifesta come qualcosa di inaspettato, che accade senza poter essere previsto, “una visione, ma non tanto nella forma del vedere qualcosa nella luce, quanto piuttosto dell’essere visti dalla luce del qualcosa… è essenzialmente l’esperienza di una visitazione” (S. Petrosino). Il verso di Properzio ci lascia cogliere un’altra peculiarità dello stupore: in questo caso, infatti, non si tratta di amore a prima vista, come per Didone. Il poeta e Cinzia sono amanti da tempo, dunque Properzio è ‘abituato’ alla vista della donna, eppure, in quell’attimo, egli ne resta abbagliato. Lo stupore dunque non necessita a tutti i costi di esperienze straordinarie, fuori dal comune. Esiste, in altre parole, uno ‘stupore feriale’, del quotidiano, non meno sorprendente e travolgente di quello originato da fenomeni particolari.
“Lo stupore è un’esperienza eccezionale, ma non dell’eccezionale; in esso si fa esperienza dell’apparire del qualcosa di comune. … E’ questo modo d’essere a configurarsi come lo straordinario del qualcosa di ordinario, quello straordinario che resta oscurato nella quotidianità”.
E ancora: “il tempo della sorpresa è sempre l’attimo…; in questo senso è come se nello stupore si vedesse sempre una prima volta, e come se in esso si esperisse l’apparire dell’inizio…: all’improvviso il qualcosa appare come non era mai apparso prima e come non è certo apparirà in seguito” (Petrosino).
Come si diceva lo stupore è sempre al crocevia di diverse emozioni: paura e gioia ne sono spesso concause scatenanti, come si evince, tra le numerose occorrenze che potremmo citare, anche da questo verso virgiliano:
obstipuit simul ipse, simul percussus Achates
laetitiaque metuque
Enea “restò stupefatto e Acate con lui, commosso da letizia e timore” (Eneide 1, 513).
Il timore è dunque spesso sorgente di stupore, ma la condizione bloccante a cui conduce è talvolta transeunte e destinata a risolversi o per un intervento esterno o per una sorta di contraccolpo del soggetto stupito, che, reagendo con una sorta di sussulto interiore, “decide” in qualche modo di riaversi.
Quest’ultima dinamica è chiarita da Terenzio nel soliloquio del giovane Eschino, uno dei protagonisti della commedia Adelphoe (vv. 610 sgg.):
“Che pena ho in cuore! Cadermi addosso una simile disgrazia, tanto che non so più cosa fare né come comportarmi! Dalla paura non mi reggono le membra, il mio animo è sconvolto per la pena (animus timore obstipuit) e non riesco a fissarmi su una decisione. Mah, come posso tirarmi fuori da questo imbroglio?… Finora non ho fatto che tirare in lungo: forza Eschine, è ora che ti svegli! Adesso la prima cosa da fare è questa…”.
C’è stupore e stupore dunque. C’è uno stupore bloccante, che potremmo definire “depressivo”, letargico (come quello di Ovidio o di Livio), e uno stupore che, pur bloccando inizialmente, conduce poi alla trasformazione di sé, al cambiamento e all’azione. Ne troviamo esemplare testimonianza in Apuleio, autore del celebre romanzo latino “Le metamorfosi”, in cui lo stupore gioca un ruolo essenziale, sia per quanto riguarda i personaggi, sia riguardo ai destinatari del romanzo stesso: “il lettore, dunque, si stupirà; e si stupisce continuamente anche il protagonista del romanzo, Lucio, le cui emozioni hanno anche la funzione di prefigurare e stimolare analoghe emozioni nel lettore” (Graverini).
A un certo punto, dopo aver assistito a una metamorfosi di una donna in gufo, Lucio dice di sé (3,22,1): “quanto a me invece, non ero stato stregato da nessun incantesimo ma, paralizzato semplicemente dallo stupore (stupore defixus) per ciò che era appena successo, mi sembrava di essere diventato un’altra cosa, tutto tranne che Lucio”. Lucio è sì defixus, ossia incantato, ma questo incantesimo non lo paralizza, bensì lo trasforma, lo dinamizza. D’altro canto la fascinazione è un altro fenomeno collimante con lo stupore, da cui pure si differenzia: infatti, “la sorpresa dello stupore è inseparabile da questa ripresa che è precisamente quella che la distingue dall’incantamento della fascinazione: lo stupore non è fascinazione, è per essenza vicino alla fascinazione, ma la sua essenza non è quella della fascinazione” (Petrosino).
Come annota ancora Graverini, “a causa dello stupore provato, Lucio, che prima … desiderava ascoltare e vedere cose incredibili, ora vuole provarle in prima persona. In pratica, … Lucio non ascolta più storie, ma sta per diventare una storia: la storia di Lucio-asino. Siamo di fronte alla rappresentazione narrativa di un concetto importante (…): lo stupore è una sorta di figura del coinvolgimento del lettore-ascoltatore, che si fa disponibile a entrare anima e corpo nel mondo narrativo”.
Nell’ultimo libro del romanzo di Apuleio, lo stupore di Lucio e quello del lettore si colorano di tinte mistiche, traendo origine dai misteri della dea Iside. E’ lo stupore dell’esperienza religiosa, della teofania del dio, che potrà, in taluni casi, assomigliare all’estasi, ma ancora una volta senza sovrapporvisi del tutto.
Ne troviamo ovviamente tracce fondamentali anche nella tradizione ebraico-cristiana, e dunque nella Bibbia, in cui ci si stupisce di fronte ai miracoli, alle guarigioni, al sepolcro vuoto, o alle stesse parole di Cristo. Come puntualizza il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I: “In tutti questi casi non si tratta di una semplice ammirazione, del solo sbalordimento, ma di una diretta concreta comunione con l’energia divina increata, che produce la conoscenza autentica di questa realtà soprannaturale”.
Si tratta insomma di uno stupore che potremmo dire quasi “performativo”, che informa di sé sia gli occhi naturali sia gli “occhi spirituali” che, stupendosi, già esperiscono e conoscono le cose di Dio.
Ma questo è, appunto, tutto un altro stupore.
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Pubblicato anche in “Le Nuove Frontiere della Scuola” n.33
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