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Suicidio assistito e dono della vita: gara di cinismo?

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L’egoismo di chi soffre?

 

Durante un convegno sul suicidio assistito tenutosi a Roma ieri, 11 settembre 2019, il card. Gualtiero Bassetti ha detto che la volontà di togliersi la vita esprime una mentalità per la quale «ha senso solo ciò che genera piacere o qualche forma di convenienza materiale», e che se oggi sempre più malati chiedono la morte è anche perché la famiglia è portata a «percepire chi soffre come un peso».

Secondo Bassetti bisogna piuttosto far capire a «chi soffre che egli non solo riceve, ma anche dona», e che «per il malato sottrarsi a questo reciproco scambio sarebbe un atto di egoismo, un sottrarsi a quanto ognuno può ancora dare».

Rimane saldo, dunque, il principio morale secondo cui «vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente».

La vita, conclude Bassetti, «più che un nostro possesso», è infatti «un dono che abbiamo ricevuto e che dobbiamo condividere, senza buttarlo».

Una gara di cinismo?

Fino a quando utilizzerà questo approccio e questo linguaggio, il fronte cattolico contrario alla legalizzazione del suicidio assistito non riuscirà a guadagnare i consensi che cerca.

Se si vogliono sensibilizzare i malati e le loro famiglie, non si possono accusare i primi di “egoismo” e le seconde di “indifferenza”. Facendolo, sembra che Bassetti non si sia accorto che il “cinismo” che egli attribuisce a una società che aiuta i malati a togliersi la vita non è diverso da quello che le sue parole esprimono nei loro confronti.

Cosa è, infatti, se non cinismo, giudicare, mentre si è in buona salute, la sofferenza altrui come “egoismo” e attaccamento al “piacere materiale”? E cosa è, se non cinismo, dire che poiché la vita è un “dono”, abbiamo il preciso “dovere” di “non buttarla via”?

Anche chi fuma “butta via” il dono della vita, e per giunta senza l’attenuante di una sofferenza che lo opprime irreversibilmente, com’è quella di certi malati. In base al ragionamento di Bassetti, dunque, fumare sarebbe moralmente ben più grave di ricorrere al suicidio assistito.

Perché allora concentrarsi solo sulla seconda azione e non anche sulla prima?

La vita come dono… obbligatorio?

Io credo che si possa dimostrare, con riflessioni etiche mirate, che l’eutanasia e il suicidio assistito non siano la migliore né l’unica soluzione alle sofferenze di un malato che ne faccia richiesta.

Ma credo anche che le argomentazioni usate da Bassetti siano sbrigative e controproducenti.

Secondo Bassetti, infatti – che in ciò ripete un argomento standard di certa teologia cattolica – nessuno può disporre della propria vita, dal momento che la vita non appartiene all’uomo, ma è un dono di Dio.

A questo riguardo si impongono due semplici osservazioni:

1)Dire che la nostra vita non ci appartiene perché è Dio ad avercela donata, significa dire che un dono non appartiene a chi lo riceve ma a chi lo fa. La nostra vita, al contrario, ci appartiene proprio perché Dio ce l’ha davvero donata.

2) Chi chiede l’eutanasia non sta rifiutando la vita che Dio gli ha donato, ma la sofferenza che ormai la assorbe totalmente. Dire, anche in questo caso, che la vita non si tocca perché è un dono di Dio, significa dire che Dio ci sta donando, insieme alla vita, anche la sofferenza che la rende insopportabile. 

Ripartire dalla sofferenza, senza banalizzarla

Quando, all’inizio della sua opera di carità, Madre Teresa di Calcutta si trovò di fronte a un lebbroso che soffriva atrocemente per le sue piaghe, gli disse: “buon uomo, le sue sofferenze sono le carezze del buon Gesù”.

Il lebbroso la guardò fisso negli occhi e le disse: “dica allora al suo buon Gesù, per favore, di andare ad accarezzare qualcun altro”.

Alla conclusione, mistica, che persino le sofferenze possano essere un “dono”, può giungere solo chi soffre. Mai un altro. Ergo: non si può dire che l’eutanasia è sbagliata perché la vita è un dono di Dio. Se è sbagliata, lo sarà per altri motivi.

Se vogliamo trovarli, rimettiamoci a pensare al di là dei toni un po’ irrispettosi e schematici del discorso di Bassetti, che ci impediscono anche solo di sospettare un altro approccio, in cui il primo passo non è la perentoria (e astratta) conferma del “valore della vita”, ma una domanda: “che cosa significa ‘vivere’ e ‘soffrire’ per una persona che sia giunta al punto di preferire la morte?”. Ripartiamo da qui.

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