Il testo del Vangelo
22Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. 23Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro:24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: «Signore, aprici!». Ma egli vi risponderà: «Non so di dove siete».26Allora comincerete a dire: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze». 27Ma egli vi dichiarerà: «Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!». 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
Una parola che scuote
Il Vangelo di questa domenica è, in un certo modo, in continuità con quello di domenica scorsa, in quanto ci scuote e ci propone una parola che non ci aspettiamo, che è in contrasto con la nostra immagine di Cristo e di Dio.
Si parla, invero, di un rifiuto di Dio verso alcuni – gli “operatori di iniquità” – che pure affermano di essergli stati accanto.
Credere di credere
Gesù è in cammino verso Gerusalemme, si dirige verso la città che uccide i profeti, verso la sua “ora”: lo fa con una forza e una libertà inimmaginabili per noi.
La parola di oggi prende le mosse da una domanda, al contrario molto affine al nostro modo di affrontare le questioni: “sono pochi quelli che si salvano?”.
C’è un sottinteso in questa domanda, nello stesso pensare in questi termini alla salvezza: chi la pone, più o meno consapevolmente, si inserisce nel gruppo dei salvati.
A pensarci bene il problema non è il teorico “quanti si salvano” ma se ti salvi tu e se ti fai strumento per la salvezza di altri.
Questa domanda diventa per noi l’ammonimento rispetto al rischio di sentirsi “buoni cristiani”, “salvati” o “più meritevoli di salvezza”.
È una eventualità molto concreta per tutti coloro che approfondiscono la fede, si dedicano alla vita comunitaria ed ecclesiale: credere di credere, potendosi poi dedicare al giudizio sulla conformità degli altri alla nostra idea di fede e di salvezza.
Il bisogno di salvezza
Grazie a questa domanda, però, abbiamo l’opportunità di interrogarci sul senso che la parola “salvezza” ha oggi. Noi, la nostra società, la Chiesa, ci parlano di salvezza? Gli uomini di oggi vivono nel cuore il bisogno di salvezza?
A un livello superficiale la risposta è certamente sì: ci aggrappiamo a tutto ciò che promette di risolverci i problemi o affrontare le fatiche al posto nostro. Eppure per sentire bisogno di salvezza è necessario sperimentare il fallimento, la miseria, avere consapevolezza, non solo teorica, che qualcosa manca.
Questo bisogno non si trova nella vita soddisfatta di se che platonicamente perdona e ha indulgenza della miseria degli altri e della propria.
Noi non sperimentiamo il bisogno di salvezza perché siamo intimamente conviti di sapere che cosa è la felicità e illusoriamente persuasi di potercela dare da soli, negando che bisogna chiedere.
Aprirsi nuovamente come esseri bisognosi di qualcuno e di qualcosa che dia pienezza alle nostra vita, tanto vuota e svuotata dalla menzogna degli idoli (denaro, lavoro, successo) che ci promettevano pienezza (senza potercela realmente dare) è il passaggio fondamentale per vedere nelle tenebre, la luce di una porta stretta.
La porta stretta
Perché la porta è stretta?
Una interpretazione fa leva sulla difficoltà di attraversarla, ma questo non basta ancora. La porta stretta di una città o di una dimora era non quella grande, il portone principale o il cancello, ma una più piccola, che veniva chiusa per ultima.
Questa piccola porta rappresenta il limite massimo alla possibilità di entrare, ci ricorda che c’è un padrone che poi chiude questa porta, perché non è più tempo di entrare.
La Parola di oggi è dura perché mette in evidenza che c’è un tempo per la salvezza, che dura una vita intera ma che non è totalmente in nostro potere: è fatta di occasioni di salvezza, di incontri che ci fanno uscire da una atteggiamento, di istanti in cui cogliere la grazia.
L’invito è nuovamente alla vigilanza: essere aperti alle possibilità di salvezza che in tutta la vita Dio ci accorda. “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino” dice il profeta Isaia (Is 55, 6).
Rimanere fuori
Alcuni bussano ma non è loro aperto. Il tempo è passato.
Anche se credono di aver conosciuto il Signore, Egli dice “non vi conosco”. Se la fede è vissuta con esteriorità, senza che la vicinanza alla cose di Dio (partecipare alla Celebrazione Eucaristica, per esempio) riesca davvero a raggiungere il cuore, dove matura la giustizia delle nostre azioni agli occhi di Dio, per una vita intera resteremo “operatori di iniquità”.
Anche se sembreremo i primi agli occhi del mondo, saremo gli ultimi.
La nostra ingenua idea che quando vorremo, premendo su un bottone, potremo cambiare radicalmente la nostra vita, accogliere e comprendere la parola di Dio e farci plasmare da essa, cancellando con un colpo di spugna i meccanismi che ci ingabbiamo, è smentita dal Vangelo di oggi.
Quando ciò accade è frutto di grazia, e non possiamo disporne a piacimento, soltanto riceverla e accoglierla (oppure rifiutarla).
Il banchetto di Dio
Se si vive il bisogno di salvezza e l’accoglienza della grazia tutti potranno passare da questa porta, anche se è stretta, anche quelli che arrivano per ultimi (come nella parabola dei lavoratori della vigna in Mt 20, 1-16) e che sono gli ultimi agli occhi del mondo (e, talvolta, anche ai nostri occhi): ci sarà una grande festa in cui tutti, “da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno siederanno a mensa”.
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