Si fa un gran parlare dell’Africa e delle sue piaghe sociali, fame, mancanza di acqua, altissimo tasso di mortalità infantile, analfabetismo. Una situazione drammatica che va avanti da troppo tempo e che grida vendetta dinanzi a un Occidente che finora si è limitato ad amplificare il suo inutile e sterile senso di colpa, senza prendere in seria considerazione le sue chiare e manifeste responsabilità.
Eppure, noi siamo i c.d “popoli civilizzati”, usi ad impartire al resto del mondo lezioni di diritti e di democrazia, al punto da legittimare i cd “bombardamenti umanitari” come necessari per “esportare democrazia”. E siamo sempre noi Occidentali che, se pure a casa nostra, ormai da decenni, stiamo progressivamente smantellando ogni forma di Welfare – per assecondare le spietate leggi del neoliberismo, fatto di “austerity” e privatizzazioni – tuttavia, abbiamo la pretesa di imporre un modello assistenziale per il resto del mondo.
Accade così, che in forza di una presunta superiorità morale e culturale, pretendiamo di essere noi a dover risolvere – da una prospettiva inevitabilmente parziale e spesso inficiata da ben altri interessi – questioni cruciali legate alla sopravvivenza e al benessere degli altri popoli. L’idea di fondo è che da parte nostra, non possa esserci altra soluzione al problema della povertà del mondo, che quella di un’accoglienza incondizionata e illimitata, senza se e senza ma.
Senza volere entrare nel merito dell’efficacia di una simile soluzione che, di fatto, risulta incompatibile con l’esistenza stessa di politiche migratorie – la cui funzione dovrebbe essere proprio quella di regolare e non solo di permettere i flussi migratori, stabilendone condizioni e limiti – tuttavia, c’è da chiedersi come mai, malgrado decenni di politica dell’accoglienza, di aiuti umanitari, di piani di assistenza, la miseria in Africa continui a dilagare e la gente continui a scappare, alimentando peraltro traffici umani incontrollabili.
Sembra già di sentire alzarsi in coro i paladini dell’accoglienza ad oltranza, che rivendicano la propria opera come l’unica via realmente praticabile per salvare vite umane. Ed è certamente così, se si continua a concepire il problema in termini esclusivamente emergenziali. Ovviamente nessuno oserebbe mai mettere in discussione la priorità di salvare vite umane dalla morte in mare. Tuttavia, se veramente si vuole trovare una via d’uscita, è necessario affrontare il problema, uscendo dalla mera logica emergenziale che riesce a trovare una soluzione solo dinanzi al caso estremo del salvataggio di vite.
Non può più bastare salvare dalla morte certa, prima ancora è necessario salvare la possibilità di una vita umanamente degna. Non possiamo cioè più accontentarci di una politica mirata alla soluzione emergenziale hic et nunc, che di fatto finisce con l’alimentare il perpetuarsi dell’emergenza stessa, senza mai nemmeno provare ad affrontarne le vere cause. Come superare questa difficile impasse?
Forse non molti sanno che una risposta concreta ci è giunta proprio dall’Africa, grazie all’esistenza di Thomas Sankara, un uomo il cui pensiero e la cui opera dovrebbero essere, oggi più che mai, fonte di ispirazione per tutti noi, ma che invece, purtroppo, è caduto immeritatamente nell’oblio. Alla fame e alla miseria, alle guerre e ai genocidi, della sua povera gente, Sankara aveva saputo contrapporre il sogno della Rivoluzione della dignità. Il Che Guevara dell’Africa – come venne chiamato – dedicò la sua breve ma intensa vita al riscatto della sua Patria, lottando costantemente contro le politiche colonialistiche francesi che ancora oggi affamano l’Africa.
Fu assassinato nel 1987, a soli 37 anni, lasciando tuttavia all’Africa e all’umanità intera un’eredità significativa che attende ancora un compimento. I discorsi di Thomas Sankara non erano solo parole illuminanti di emancipazione, si traducevano sempre in azioni concrete, perché era un Presidente che faceva ciò che diceva e che diceva ciò che avrebbe fatto. La rivoluzione della dignità non era dunque solo una dottrina, ma un compito concreto da assolvere. Ecco perché, ancora oggi, vale la pena ascoltarlo.
A differenza di un’egemonia culturale che concepisce il processo di integrazione alternativo all’affermazione delle diverse identità, la vita e le opere di Thomas Sankara sono state interamente dedicate proprio al riscatto dell’identità africana. Per prima cosa sostituì il nome di Alto Volta che era stato imposto dal colonialismo francese, con quello di Burkina Faso, letteralmente la patria degli uomini integri e liberi. Al Congresso di Berlino (1884-85) le grandi potenze europee, infatti, si erano ripartite il Continente nero, tracciando frontiere arbitrarie, separando famiglie, etnie e gruppi socioculturali.
L’Alto Volta rappresentava la quintessenza di tutti i mali del mondo: ignoranza, fame, sete, un medico ogni 50.000 abitanti, un’aspettativa di vita media di 40 anni. Il Presidente dei poveri inizia così a predicare la necessità del risveglio dalla schiavitù, negando persino la compassione a chi non osava ribellarsi alla sua schiavitù presente, ma viveva nell’illusione di una falsa promessa di libertà.
Celebre il discorso del 4 agosto del 1984 alle Nazioni Unite, in cui presenta la sua azione di governo come azione mirata a rendere gli uomini felici, nella convinzione che una politica che non rende felici non abbia alcun senso. Per la prima volta, qualcuno osa parlare di nazionalizzare le risorse del Paese per usarle a favore del popolo. Alla competitività per il profitto di quei pochi sempre più ricchi e potenti, il presidente del Burkina Faso, seppe contrapporre la cooperazione e la condivisione.
Orientò subito il suo lavoro al soddisfacimento dei bisogni alimentari fondamentali e dunque al recupero della sovranità alimentare. In soli quattro anni -tanto durò la sua presidenza – egli fu in grado di costruire scuole, ferrovie, ospedali e di garantire a ciascuno 10 litri di acqua al giorno. Si oppose alle coltivazioni intensive, prima causa della desertificazione del territorio, imposte da un potere mondiale “fondato sullo sfruttamento degli essere umani che non si è mai fatto scrupolo nello sfruttare selvaggiamente anche l’ambiente e le foreste”.
Si trattava di una rivoluzione che non ammetteva deleghe, ogni singolo burkinabé doveva imparare a produrre ciò di cui si aveva bisogno. A tal fine contrastò la logica dello scambio ineguale perché, diceva, “i mercati africani sono mercati africani e noi dobbiamo imparare a produrre, trasformare le materie prime e consumare in Africa”. Rivendicava il diritto di vivere all’africana come la sola via per una vita libera e degna. In pochi anni, il Burkina riuscì così a moltiplicare la sua produzione alimentare, recuperando gran parte della propria sovranità agricola e dunque della propria libertà.
Proprio questa visione di liberazione lo portò a rifiutare le ricette neoliberiste proposte dai circoli neo-finanziari, dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario Internazionale che, attraverso la liberalizzazione dei mercati agricoli, avevano causato in molti Paesi la perdita di autosufficienza e di sovranità alimentare, rimpiazzandoli con falsi aiuti umanitari, in caso di necessità. Era giunto il momento di svegliarsi, di non languire più sotto quel giogo straniero che non esitava a denunciare come uno sporco imbroglio, perché diceva:” il nostro Paese è in grado di provvedere al fabbisogno alimentare del suo popolo e anche di più”. Con estrema lucidità Sankara smaschera dunque la vera natura della politica degli aiuti, dietro cui molto spesso si nascondono spietate forme di asservimento.
“Questi aiuti”, diceva “ci bloccano, ci fiaccano e indeboliscono le nostre volontà, perché piano piano ci si abitua ad essere degli assistiti, dei poveracci…Perché è evidente, chi ti regala da mangiare poi ti impone la sua volontà e i suoi interessi”. La sua idea di vita libera, di vita degna di essere vissuta, risulta dunque incompatibile con la mera sopravvivenza garantita dagli aiuti umanitari. Non si trattò dunque solo di un duro lavoro di ricostruzione materiale, la rivoluzione della dignità non poteva che essere, innanzitutto, una vera e propria rivoluzione culturale.
Era convinto, infatti che per liberare il territorio dagli sfruttatori, occorresse prioritariamente decolonizzare le menti. “Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa.” Il processo di liberazione non poteva che passare dunque dal recupero delle tradizioni del Paese e della propria identità culturale.
Altro discorso indimenticabile fu quello sul debito, pronunciato durante la riunione dell’Organizzazione per l’Unità Africana ad Addis Abeba il 29 luglio 1987, tre mesi prima che fosse assassinato. Debito e colonialismo vengono presentate come due facce della stessa moneta, in quanto il primo è lo strumento privilegiato di cui si servono quei colonizzatori che non esita a definire “assassini tecnici”. In questo discorso vengono teorizzate le ragioni che giustificano il non pagamento del debito, rifiutando l’idea che potesse esserci alcun dovere morale alla restituzione delle somme prestate: “Non possiamo pagare il debito perché non siamo responsabili del debito…
Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci hanno colonizzato…. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali…” Ben diversamente ne legittima il rifiuto, in quanto solo “evitando di pagare potremo utilizzare le nostre scarse risorse per il nostro sviluppo”. Un debito che vincolava per 60 anni, di fatto non era altro che una riconquista dell’Africa sotto mentite spoglie, “sapientemente riorganizzata in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee”. In altre parole, il debito non era altro che il modo per trasformare ogni cittadino africano in “schiavo finanziario”, in quanto obbligato al rimborso nei confronti degli speculatori finanziari.
Il suo messaggio è dirompente e va ben oltre i confini dell’Africa, essendo rivolto a tutti i popoli ridotti in schiavitù dagli affaristi di un mondo globalizzato. Pertanto, auspica l’unione e il superamento delle divisioni tra tutti popoli resi schiavi:” Perché un lavoratore africano e un lavoratore europeo, uno cinese e uno americano, dovrebbero essere competitivi fra di loro?” Comprende dunque la necessità di riverticalizzare il conflitto che il potere del divide et impera cerca in tutti i modi di mantenere sul piano orizzontale. “le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune”. Si oppone dunque alla delocalizzazione: “se un’azienda chiude in Europa e apre in Asia, a perdere saranno comunque i lavoratori e a vincere saranno gli interessi finanziari”.
La scomparsa dii Sankara fu una tragedia per l’intera Africa. Ancora oggi, a distanza di più di mezzo secolo da quel 1960, proclamato “anno dell’Africa”, l’indipendenza degli Stati africani rimane fittizia e il potere coloniale francese è di fatto è rimasto intatto. Ma si sa, le idee non si possono uccidere, sopravvivono ad ogni esistenza e anche quando sono dimenticate, rimangono sempre lì a disposizione di chiunque abbia la volontà di rivisitarle, di trarne insegnamento per un nuovo punto di partenza.
Proprio oggi che la liberazione degli Stati africani rimane ancora un sogno non realizzato, la voce di questo grande uomo può rappresentare un motivo di speranza per le nuove generazioni africane, perché imparino a non lasciarsi sopraffare da modelli che non appartengono alla loro cultura, a non farsi colonizzare dagli stereotipi occidentali, ma trovino lo stimolo per riscoprire le loro radici, le reali opportunità di quell’identità africana che per il loro Presidente era l’unica via per la vera emancipazione.
Ecco perché oggi potrebbe essere molto utile rilanciare la storia del padre della rivoluzione della dignità. Una storia che ai più rimane ancora sconosciuta, interrotta violentemente per mano dell’ex Presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré, che proprio il 6 aprile di quest’anno è stato condannato in contumacia all’ergastolo da un tribunale burkinabé. Ma anche di questo nessuno ne parla.
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