Pluralismo, religioni, dialogo
Gli esiti negativi della globalizzazione hanno condotto ad una ripresa della cultura nazionalista che spesso strumentalizza le religioni. Questi tentativi mirano ad identificare la credenza religiosa con la cultura identitaria e quindi a generare distinzioni, separazioni e persino scontri fra le varie declinazioni culturali, religiose e sociali. A questa prospettiva, si contrappone il tentativo di dialogo fecondo fra le religioni al fine di contribuire alla ricerca della promozione umana e del bene comune nelle odierne società.
Del possibile contributo della teologia a questo dibattito, parliamo con Brunetto Salvarani. Teologo, giornalista e scrittore, Salvarani dirige la rivista QOL. Docente di Missiologia e Teologia del dialogo nella Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e negli Studi Teologici di Bologna, Salvarani è presidente dell’associazione italiana degli Amici di Neve Shalom – Wahat al Salam. Da qualche settimana è uscito per la Cittadella Editrice il volume intitolato «Ho parlato chiaramente al mondo». Per una teologia pubblica ecumenica che Salvarani ha scritto insieme a Marco Dal Corso.
– Nel suo ultimo libro, composto insieme a Marco Dal Corso, lei avanza una peculiare visione teologica capace di contribuire positivamente allo sviluppo di una convivenza umana fraterna e pacifica. Si tratta, come viene definito nel volume, di una teologia pubblica ecumenica. In particolare, cosa può offrire una proposta teologica del genere all’odierna società?
Partirei con la segnalazione del fatto che autorevoli intellettuali europei – da Cacciari a Roy a Habermas, per fare solo qualche nome alla rinfusa – sempre più spesso parlano del bisogno di un discorso teologico che si confronti con i temi del dibattito pubblico, che aiuti a orientarsi nell’odierna seconda navigazione, e collabori a una migliore intelligenza sul reale. I tre obiettivi di una teologia pubblica sono, per dirla sinteticamente, trattare temi sociali, utilizzare un linguaggio di taglio per quanto possibile teologico e risultare significativa non solo per le chiese ma per la società nel suo insieme. Giocata in chiave ecumenica, essa fornirebbe un aiuto importante al fine di non ridurre la religione a dimensione esclusivamente privata, ma anche a non diluire in un comune linguaggio religiosamente corretto la carica profetica delle religioni, accettando l’interpellanza del pluralismo, che ci ha visti transitare dalla religione degli italiani all’Italia delle religioni, in breve tempo. Non solo.
Una teologia pubblica ecumenica si dovrebbe impegnare a tradurre il linguaggio religioso in una grammatica universale e accessibile anche a chi, abitante della città post-secolare, appartiene a una confessione diversa da quella maggioritaria o non appartiene ad alcuna comunità religiosa, contribuendo a edificare una società più giusta ed egualitaria e a non accettare lo status quo dell’attuale società delle tre R: rancore, risentimento e rabbia. Nelle intenzioni della nostra proposta, essa intende partecipare ai dibattiti che si sviluppano nella sfera pubblica, esplicitando la rilevanza pubblica della teologia nella costruzione dell’idea di cittadinanza, frequentando e non evitando il dibattito pubblico; collaborando e dialogando con le scienze sociali, le culture e le diverse religioni in maniera interdisciplinare e interreligiosa, partecipando a pieno titolo alla ricerca accademica e al dialogo interculturale. Fra l’altro, una prospettiva del genere aiuterebbe i credenti a smettere di essere autoreferenziali, a non scambiare la chiesa per il Regno, a non cedere alla tentazione del fondamentalismo e del discorso apologetico, evitando tali tentazioni costantemente presenti nelle chiese e nelle comunità. Essa favorirebbe, infine, la costruzione di un’idea di cittadinanza plurale (anche dal punto di vista simbolico), sottolineando la necessità di ripensare la laicità come spazio di dialogo e collaborazione aperta.
– Varie indagini sociologiche e diverse analisi culturali mostrano come il XX secolo non abbia sancito la definitiva “morte di Dio” con la relativa scomparsa delle religioni. Anzi, l’inizio del XXI secolo registra una forte incidenza delle religioni nei grandi scenari culturali, politici e sociali della comunità umana. Si tratta di un fenomeno da studiare e, dove possibile, da educare e coordinare. Su questo tema quale apporto può offrire la visione pubblica ed ecumenica della teologia?
Oggi tutti noi abitiamo in una città complessa e plurale, da tempo non più monoculturale e tanto meno mono-confessionale, piaccia o no; inoltre, viviamo in una città post-secolare, come confermato dalla letteratura sociologica al riguardo. Se questo è il contesto, una teologia pubblica ecumenica è convocata a confrontarsi con la società plurale e, pena l’afonia o, peggio, la perdita della dimensione profetica delle fedi, a elaborare un discorso teologico sui temi sociali in maniera diversa dalla stagione della secolarizzazione senza se e senza ma. Un discorso che accetti il pluralismo non solo de facto, ma anche de iure, come economia divina di salvezza, come luogo da cui ripensare le forme storiche delle religioni (oggi, direi un po’ tutte, in forte crisi). La teologia pubblica ecumenica può aiutare l’abitante della città multiculturale e multireligiosa non riprendendo il modello del multiculturalismo identitario, che postula la creazione di spazi sociali divisi, e nemmeno l’imposizione di un modello assimilativo in cui una mitica e fantomatica identità italiana (al singolare) sia proposta come termine assoluto cui adeguarsi.
Rispetto alle città interculturali, che saranno altre dalle nostre attuali città, del resto, ognuno di noi (autoctoni e immigrati) è straniero, straniero a noi stessi (J. Kristeva). In altri termini, tutti noi siamo chiamati a farci pellegrini e a metterci in viaggio verso un nuovo spazio comune dove ciascuno e tutti, a partire dalle proprie differenze, possano sentirsi a casa e nessuno sia straniero/estraneo. Solo così saranno ricostruiti i legami sociali e la solidarietà che tengono assieme la vita delle/nelle città. Per poterlo fare è necessario attrezzarsi al dialogo, all’incontro, alla mediazione e alla continua ri-negoziazione di vissuti e significati. Non si tratta – si badi – di fondere i propri orizzonti in un sincretismo omogeneizzante o nell’universo simbolico del più forte, quanto di costruire assieme un nuovo linguaggio plurale e dialogico.
– Tutti gli indicatori affermano che negli ultimi anni la disuguaglianza sociale nel mondo, anche in Europa, è cresciuta. Da sempre la questione della povertà è importante per la riflessione teologica. Alla luce dei cambiamenti globali in atto dovuti anche alla pandemia da Covid-19, il contrasto alla povertà torna ad essere la preoccupazione principale per la politica a qualsiasi livello. La teologia che contributo può offrire a tale dibattito?
Un contributo importante, direi. Quando la teologia parla del Dio dei poveri, non intende solo lanciarsi in un appello etico, ma intende, sulla scorta della pagina biblica, parlare di Dio. Il povero, il migrante, la povertà diventano il luogo teologico più appropriato per parlare di Dio se è vero che, come sostiene il vangelo, l’amore per i poveri qualifica l’amore per Dio. Davanti all’assenza umana è possibile scoprire la presenza divina. La teologia pubblica ecumenica, in forza di tale consapevolezza, non edulcora la povertà come invece ha finito per fare una certa tradizione spiritualizzante all’interno delle chiese e una certa risposta politica all’interno delle comunità civili.
I poveri, i migranti sono e rimangono coloro che sono privi di beni essenziali per vivere, di diritti fondamentali per esistere socialmente. Peraltro, questa loro privazione non denuncia solo e soprattutto una situazione socio-economica di carenza, ma rappresenta a giudizio della teologia pubblica un appello affinché il credente di ogni chiesa se ne faccia carico, risponda ai bisogni posti dal povero e dallo straniero che incontra. In definitiva, la teologia può concorrere al dibattito pubblico sulla povertà non semplicemente portando le ragioni per combatterla (cosa che le scienze sociali possono fare egregiamente), ma facendo appello alla coscienza in vista di un’azione politica di contrasto alla povertà.
Questo il suo contributo originale. Partendo da tale analisi, una teologia pubblica degna di questo nome è consapevole che la presenza dei poveri e la realtà globalizzata della povertà dovrebbe interrogare il pensiero di tutte le religioni: i poveri non sono solo oggetto delle pratiche assistenziali (come interpretato spesso dalle politiche sociali), ma sono soggetti per la costruzione di un altro mondo possibile. Prima di tutto perché essi denunciano, con le assenze presenti nella propria vita, l’ingiustizia del mondo. La teologia richiede alle chiese, perciò, di smettere di guardare ai poveri come oggetto.
– Movimenti sovranisti e nazionalisti si diffondono sempre più in Europa e nel mondo. Slogan come “prima noi” o “chiudiamo le frontiere” cominciano a riempire non più soltanto i bar e le piazze ma anche le aule parlamentari. Prima che un contributo politico, la teologia pubblica ecumenica può avanzare una proposta educativa alternativa a questa visione. È così? Con quali caratteristiche?
È un dato di fatto che l’accelerazione vistosa della pluralizzazione dei riferimenti religiosi, soprattutto nel vecchio continente, sta reclamando alle diverse fedi una revisione delle rispettive autocomprensioni: operazione tutt’altro che semplice, in una stagione segnata da identitarismi, chiusure etnocentriche e fondamentalismi di varia natura. Come negare che di fronte alla presenza delle religioni altre il cristiano, mentre s’interroga sulla propria identità, percepisce che gli interrogativi che provengono dall’universo delle religioni interpellano la comprensione che il cristianesimo ha di sé stesso?
A fronte di tale scenario in progress, ogni discorso e ogni pratica educativi, non meno che ogni teologia che si ponga all’altezza dei tempi, devono sempre prendere avvio da un’analisi della congiuntura, del contesto, della situazione in cui si colloca. Non c’è un luogo mitico cui tornare, o una semplicità agreste pronta ad accoglierci! Non c’è riparo. C’è solo la possibilità di assumere il rischio di porsi consapevolmente in gioco nella corrente. Se le città in cui viviamo sono sempre più multiculturali, la scuola e la società intera hanno l’obbligo di formare cittadini capaci di vivere con pienezza dentro i nuovi contesti glo-cali caratterizzati dal pluralismo.
Vorrei dire: l’altro, il nemico, il babilonese, il nomade, lo straniero, il migrante, il diverso è il migliore dei maestri possibili sulla scena; è colui che ci permette di capire chi siamo davvero; che ci mette alla prova e in tal modo è capace di plasmarci, fino a farci diventare donne e uomini nuovi. Capaci di osare l’inosabile, di vivere la differenza come benedizione, e non come maledizione. Come speranza, e non disperazione. Come kairòs, e non disgrazia. Sì, la grande sfida di oggi sta nell’evitare una lettura delle differenze esistenti, spesso profonde, come uno scontro all’arma bianca tra il Bene e il Male, e di rifiutare la scorciatoia banale della sistematica demonizzazione dell’altro.
– Possiamo affermare che il magistero di Francesco è alimentato da una teologia pubblica ecumenica? A suo parere, si ritrova nel suo insegnamento una concezione teologica di questa tipologia?
Certo! Quando fu eletto vescovo di Roma, indicazione particolarmente cara alla grammatica ecumenica, Francesco volle spiegare il senso del nome da lui adottato, scelto per la prima volta nella storia del papato. Lo fece il 16 marzo 2013, in modalità narrativa, riferendosi a Francesco d’Assisi, da lui definito nell’occasione “l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato”. Ma tanti sono gli esempi che potremmo fare. Ne scelgo uno, quasi a caso, il suo messaggio per la 53° Giornata mondiale della pace (1° gennaio 2020), tradizionalmente celebrata in occasione del capodanno, dedicato alla pace intesa come realistico cammino di speranza. Tre sono le parole chiave del testo: dialogo, riconciliazione e conversione ecologica, termini che siamo ormai abituati a sentir risuonare nel lessico del papa argentino.
In primo luogo, il dialogo, vero e proprio filo conduttore di questo pontificato, da intendersi come fratellanza (riferimento diretto al documento di Abu Dhabi, firmato dal papa e dal grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb il 4 febbraio 2019, le cui parole chiave sono cultura del dialogo, collaborazione, conoscenza reciproca, diritti, cittadinanza): “Dobbiamo perseguire una reale fratellanza, basata sulla comune origine da Dio ed esercitata nel dialogo e nella fiducia reciproca. Il desiderio di pace è profondamente inscritto nel cuore dell’uomo e non dobbiamo rassegnarci a nulla che sia meno di questo”. Con un clima violento, inoltre, i primi a pagare prezzi altissimi sono i più deboli: il papa ricorda il suo commovente incontro di poche settimane prima in Giappone con i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, gli hibakusha, la cui memoria dovrebbe garantire un futuro “più giusto e fraterno”.
In secondo luogo, strettamente collegata all’invito al dialogo, compare l’esortazione a un cammino di riconciliazione, che “ci chiama a trovare nel profondo del nostro cuore la forza del perdono e la capacità di riconoscerci come fratelli e sorelle”. Anche perché solo “imparare a vivere nel perdono accresce la nostra capacità di diventare donne e uomini di pace”. Ma vorrei citare almeno anche l’esortazione Evangelii gaudium (2013), in cui si esorta a vivere un dialogo sociale come contributo per la pace: con l’intenzione dunque di evidenziare la valenza sociale di una pedagogia dell’incontro, e il suo ruolo cruciale in vista di una pacificazione della società stessa, sempre più frantumata e atomizzata. Infine, impossibile dimenticare l’enciclica del 2015 Laudato si’, rivolta “a ogni persona che abita questo pianeta”, in vista di un dialogo ipotizzato dallo stesso Bergoglio quando auspica di “entrare in contatto con tutti riguardo alla nostra casa comune”.
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