di Alfio Marcello Briguglia
Qualche giorno fa i media hanno seguito in diretta la discesa del lander Philae sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, un corpo irregolare di circa 4 chilometri di diametro, che orbita attorno al sole con un periodo di 6,6 anni terrestri. Il lander si era sganciato dalla sonda Rosetta, lanciata il 2 marzo 2004 e giunta in prossimità della cometa dopo dieci anni di navigazione, nel novembre del 2014.
Il lander, nella sua fase di discesa e di aggancio alla cometa, doveva vedersela da solo. Infatti il tempo che ci mettono i segnali radio per andare da Philae alla Terra è di circa ventotto minuti (la distanza attuale dalla terra è di 510 milioni di chilometri, ma la sonda ha viaggiato lungo un’orbita complicata per 6,4 miliardi di chilometri) e non era quindi possibile correggere eventuali imprevisti durante la discesa.
Le cose sono andate bene a metà. Philae si è agganciato solo in parte alla cometa. La luce che arrivava ai pannelli solari non era sufficiente a mantenerlo in funzione. Ha lavorato quei pochi minuti che servivano per forare il sottosuolo, prelevare campioni, analizzarli, mandare i dati a Rosetta per rispedirli a Terra.
Non descrivo altri particolari tecnici e le difficoltà dell’operazione che si possono trovare sul Web (ad esempio nel sito italiano dell’ESA www.esa/ita). Si tratta dell’ennesima performance alla quale ci abituano ormai da tempo tutte le ricerche sperimentali. Questa volta il merito va all’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e ad alcune ditte e centri di ricerca italiani.
Nell’era della stampa 3D, le immagini inviate da Rosetta hanno permesso di avere una ricostruzione a Terra della cometa, un ammasso di terra e ghiaccio assolutamente irregolare.
Rosetta porta con sè 11 sofisticati strumenti di misura.
Cosa cercano gli scienziati?
Vogliono sapere com’è fatta la cometa, perché questo può dare indicazioni su come si sia formato il sistema solare. “Rosetta”, come la stele trilingue che permise a J.F.Champollion nel 1823 di decodificare i geroglifici egiziani, dovrebbe darci le chiavi per comprendere la lingua nella quale è scritta la storia del nostro sistema solare.
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Siamo una specie ben strana e contraddittoria! Ci scanniamo per accaparrarci le risorse di questo mondo, ma poi investiamo miliardi di Euro nella ricerca per il puro desiderio di conoscere. Non abbiamo solo desiderio di mettere le mani su beni di consumo, abbiamo fame di informazioni, di conoscenze, di sapere.
Sapere come si è formato il sistema solare non risolverà i nostri problemi di sopravvivenza, né le angosce esistenziali, né i conflitti e le guerre in corso. Non ci darà un vantaggio evolutivo. La spinta fondamentale nei confronti di queste avventure cosmiche proviene proprio dal puro desiderio di conoscere. Certo, possiamo mettere in conto il prestigio personale e di gruppo dei ricercatori, le ricadute tecnologiche, gli interessi di carriera, l’amor proprio … ma, alla fine, tutto questo è parassitario di un obiettivo ben preciso che, raggiunto, avrà come unico risultato l’allargamento di un orizzonte intellettuale.
L’interesse di Homo Sapiens per la conoscenza è qualcosa di cui non ci stupiamo mai abbastanza, il segno della nostra diversità, che interrompe la continuità della nostra parentela con le grandi scimmie antropoidi, che rende decisivo quel 2% di differenza nel DNA tra noi e loro. Ci dà un ritratto dell’uomo più capace di futuro e controbilancia le spinte autodistruttive, che, anche queste, ci caratterizzano tra tutti gli animali. Il famoso incipit della Metafisica di Aristotele, una delle opere che più hanno influenzato l’Occidente, ci ricorda: “Tutti gli uomini per natura tendono al sapere“. Cosa sia la natura dell’uomo oggi è questione più articolata e complessa di quanto lo fosse ai tempi di Aristotele. Ma la sostanza non cambia. C’è un desiderio insopprimibile di sapere che ci porta ad affrontare fatiche e rischi, a pagare di persona.
In particolare, abbiamo fame di storie, della nostra storia. Sapere come è fatta la cometa significa sapere di più vicende attraverso le quali la nostra Terra è diventata quello che è. Sapere come si è formato il sistema solare non ci cambia la vita, ma fa di noi qualcosa di più della immagine che quotidianamente traccia della nostra specie la cronaca nera o rosa, la televisione spazzatura e i media specializzati nelle informazioni scandalistiche..
Tra le notizie delle quali andiamo alla ricerca, quelle che ci interessano di più riguardano il nostro passato. Cerchiamo la nostra identità e la cerchiamo nella nostra storia, perché ciò che ci identifica non è solo la consapevolezza del presente. Il presente assume il suo significato alla luce della nostra storia. E siamo disposti a pagare anche molto per ricostruirla. Il presente ha senso se è un presente teso tra la memoria del passato e un futuro possibile. Non un futuro qualunque ma il nostro. Quello segnato da una strada che è quella che dobbiamo percorrere proprio noi, per non perderci.
Molte delle discipline di indagine sperimentale vogliono riscostruire la nostra storia, fin da quel momento singolare che i fisici hanno chiamato big bang. Paleoantropologi, biologi, fisici, chimici, astrofisici, geologi … sono chiamati a collaborare in questa impresa. Anche il bosone di Higgs dovrebbe aiutarci a ricostruire lo scenario primitivo, quello di una simmetria estesa la cui rottura spontanea ha reso diverse tra loro particelle altrimenti identiche. E anche questa è una delle tappe della nostra storia.
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La missione Rosetta dovrebbe anche scoprire se, per caso, la cometa viaggiando nello spazio ha catturato qualche aminoacido, il mattone delle proteine. Nella presentazione fatta al pubblico questa scoperta aggiungerebbe un altro anello alla catena che porta dalla chimica alla biologia, dalle molecole organiche ai viventi. Per lo meno anche questo è stato detto per sottolineare l’importanza della missione.
Su questo, però, è d’obbligo fare qualche riflessione.
Comprendere come si sia giunti ai primi organismi monocellulari, dopo meno di un miliardo di anni dalla formazione del nostro pianeta, è diventata oggi impresa più difficile di qualche decennio fa. La meta si è allontanata. Siamo tornati alla teoria di Rudolf Virkow della metà dell’Ottocento: “omnis cellula e cellula“. Non ereditiamo solo il DNA. «Noi ereditiamo [oltre al DNA] la cellula uovo nella sua interezza. E’ grazie all’apparato di espressione genica della cellula uovo che il DNA può essere usato per fare altre proteine. E’ ereditato anche l’insieme completo degli altri elementi cellulari, mitocondri, reticolo endoplasmatico, microtubuli, membrane nucleare e non, e miliardi di specie chimiche in assetto specifico nei diversi compartimenti cellulari». (D.Noble) Nel 1855 il motto voleva sottolineare la parentela tra tutti i viventi ed era la traccia di una scoperta fondamentale. La riproposta di questo motto oggi è invece una presa d’atto della complessità dei processi biologici. La cellula non viene montata, come le nostre macchine, pezzo per pezzo. La cellula nasce da un’altra cellula. Nella generazione di una nuova cellula, da un intero nasce un altro intero. La sfida, allora, è diventata comprendere come sia stato possibile giungere alle prime cellule, il cui funzionamento è tutto o niente, a partire da materiale organico. (Chi volesse saperne di più può leggere La biologia e la vita, di G.Dieci in Atti del Workshop “Scienza e Metodo”, tenuto nei giorni 10 – 11 Ottobre 2013, su iniziativa dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, , presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso e reperibili in rete).
Milioni di reazioni chimiche, tutte collegate e dipendenti tra loro, garantiscono alla cellula la sua sopravvivenza e la possibilità di scindersi per moltiplicarsi. L’illusione che il DNA potesse spiegare tutto è tramontata. Il DNA, si dice, è solo una banca dati, una molecola inerte, dalla quale occorre selezionare ed estrarre le informazioni necessarie per sintetizzare quelle proteine richieste dall’intero organismo. Il DNA, ad esempio, contiene le istruzioni che servono per sintetizzare quelle proteine che, a loro volta, funzionano da enzimi per aprire e leggere quelle zone del DNA che codificano per proteine! Segnali chimici interni ed esterni alla cellula devono convincere il DNA, super avvolto nei cromosomi, ad aprirsi per rendere accessibili proprio le informazioni che servono. Quali sono le tappe di questa complessificazione meravigliosa? La strada del RNA world è percorribile?
Attenzione, però! Non mettiamo Dio nei buchi lasciati dalle spiegazioni scientifiche, come fanno alcuni creazionisti. Per il credente Dio è ovunque, ma lascia agli scienziati fare il loro mestiere.
Ho letto un bel libro del biofisico Peter Hoffmann, tradotto per Boringhieri in italiano col solito titolo accattivante: Gli ingranaggi di Dio. Il titolo originale è più modesto Life’s Rachet. How Molecular Machines Exstract Order from Caos (modesto, ma non troppo! “estrarre ordine dal caos” non è cosa da poco!).L’autore si cimenta in considerazioni storiche e filosofiche che sono superficiali e banali, stanca variante della standard view meccanicista che stenta a ridimensionarsi e che possono essere saltate a piè pari. Ma, quando entra nel suo campo di ricerca, la lettura è veramente appassionante. La descrizione del coordinamento chimico tra vari attori molecolari, per raggiungere un obiettivo, lascia senza fiato. Più, però, si va avanti nella esplorazione del funzionamento biochimico della cellula, più si fa arduo il tentativo di ricostruire la nascita della vita.
Gli stessi ricercatori impegnati sul campo mettono le mani aventi. Si tratta solo di proporre un modello possibile. Non sapremo mai come sono andate veramente le cose. Per questo l’annuncio dato da qualche ricercatore del gruppo che i dati di Philae: “ci diranno qualcosa sull’origine della vita” ha più il sapore di cattura di consenso mediatico, e quindi di approvazione dei fondi destinati a queste ricerche anziché ad altre dalle ricadute più immediate, che di vero convincimento. Non credo che la scoperta di qualche aminoacido nello spazio ci possa portare più lontano di dove adesso siamo nelle nostre conoscenze sull’origine della vita.
D’altra parte anche per il bosone di Higgs, la “God Particle“, i dati che giungono dal LHC di Ginevra stanno complicando le cose e spazzando via alcune ipotesi che vorrebbero portarci più in là, verso la “spiegazione ultima”.
Alcuni anni fa Stephen Hawking aveva annunciato la prossima fine della fisica, l’approdo a quella che A.Einstein chiamava la “mente di Dio”, la final theory, la legge fondamentale dalla quale sarebbe stato possibile dedurre, di diritto se non di fatto, tutto il resto.
Lo scenario filosofico della ricerca scientifica, però, sta cambiando. Per un motivo fondamentale. Ci si rende conto che la ricostruzione della storia non basta più. Sapere come siamo giunti fin qui non ci dice ancora chi siamo. Perché, se è vero, come ho detto, che la nostra identità dipende dalla nostra storia, è anche vero che ad ogni passo della nostra storia “emerge” qualcosa di nuovo. Il tutto che siamo non è comprensibile analizzando le parti e le vicende che sono alle spalle nella nostra storia. Oggi si sta facendo strada una visione più libera e meno ideologica della ricerca scientifica e del nostro sapere. Il riduzionismo non è più l’unica filosofia in campo. Possiamo sentire molti premi Nobel, come ad esempio Robert Laughlin, affermare che “siamo di più degli atomi e delle molecole delle quali siamo composti”. Tendenze antiriduzioniste si fanno strada, faticosamente ma progressivamente, tra credenti e non credenti.
Era ora!
Ma questo merita un discorso più articolato e sarà oggetto di una prossima riflessione.
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