di Giuseppe Savagnone
L’inaspettata e dilagante vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane può essere letta da diversi punti di vista. Quello che più comunemente emerge, nei commenti “a caldo” di queste prime ore, è lo sgomento per la profonda divaricazione tra le concezioni e le aspettative di una società “civile” – quella rappresentata dai giornali e dall’opinione pubblica americana, ma non solo americana – e il trionfo indiscutibile di un personaggio che sembra, invece, concentrare in sé tutto ciò che di “incivile” e politicamente scorretto esiste nell’immaginario collettivo dell’Occidente. Un personaggio, si ripete da mesi, razzista, maschilista, antifemminista, antigay, antiabortista, antiliberista. Il più volgare sessista, il più sfrontato bugiardo, il più provocatore nemico della logica dei diritti che mai si sia candidato alla presidenza degli Stati Uniti.
Per questo nessuno lo aveva preso sul serio, quando, all’inizio della campagna elettorale, si era fatto avanti; per questo il suo stesso partito aveva osteggiato la sua sempre più sorprendente avanzata nelle primarie; per questo, pur dopo averlo dovuto accettare come candidato, i vertici repubblicani lo avevano “mollato”, quando numerose testimonianze e registrazioni televisive avevano confermato i suoi reiterati abusi sessuali; per questo i grandi quotidiani e il mondo della cultura e dello spettacolo si erano senza esitazioni schierati per Hillary Clinton; per questo (quasi) nessuno aveva previsto la sua vittoria, che ora lascia di stucco e sconcertate le classi colte e dirigenti dell’Occidente.
Un punto di vista che va più a fondo, alla ricerca della cause, è quello di chi, già prima delle elezioni, cercava di spiegare quella che comunque era la popolarità sorprendente di Trump. E ne trovava le cause nella sorda rabbia di «milioni di persone di classe sociale e istruzione medio-bassa, di razza bianca», la cosiddetta middle class, «messa al tappeto dal simultaneo avvento della deindustrializzazione e del “diverso” messicano o afroamericano, femminista o transgender». Dal 1999 al 2014 questa fascia sociale ha visto il suo reddito scendere da 77.898 dollari a 72.919. Il disagio, non solo economico, ma morale, di questa vastissima fascia sociale, spogliata in termini economici e psicologici delle sue sicurezze, è stato enorme, al punto che «l’aumento dei suicidi e dei decessi legati all’abuso di alcol e droga è stato così significativo da aver fatto scendere le aspettative di vita dei bianchi “socialmente deboli” di età compresa tra i 45 e i 54 anni». «E come ci si può aspettare che un elettorato convinto di essere stato lasciato alla mercé di aggressioni esterne (siano i messicani o i concorrenti industriali del Terzo e Quarto Mondo) decida di votare per una candidata che è l’assoluta personificazione dell’establishment politico-sociale-economico che l’ha abbandonato?» (C. Gatti, in «Il Sole/24Ore» del 6 novembre 2016).
Un terzo punto di vista può essere quello di chi valuta la vittoria di Trump sotto il profilo etico-religioso. Può essere interessante, sotto questo profilo, il fatto che molti cattolici americani, pur non apprezzando affatto il personaggio, per ovvi motivi (non dimentichiamo che, fra l’altro, papa Francesco, riferendosi abbastanza esplicitamente al progetto di Trump di costruire un muro per impedire l’accesso nel States dei migranti del Sud America, aveva dichiarato che «chi costruisce muri non è cristiano»), sono stati esasperati dalla politica di Obama e dei democratici, dichiaratamente favorevole all’aborto e ai matrimoni omosessuali. Non per nulla la Clinton era «sostenuta da Planned Parenthood, il colosso abortivo più grande d’America».
Un noto filosofo conservatore cattolico, Michael Novak, osservava prima delle elezioni: «La questione principale in queste elezioni è la divisione tra chi è stato educato al college e chi non l’ha frequentato. I primi hanno in mano il paese: controllano televisioni, giornali, radio, università, tutta la grande cultura. Alcuni sostengono che hanno formato una nuova classe sociale, egemonizzata e controllata dal partito democratico», e questa «classe politicamente corretta guarda dall’alto in basso tutti coloro che non la pensano come lei, accusandoli di sessimo e razzismo» (in «Tempi» del 21 ottobre 2016).
«La scelta non sarebbe dunque così difficile, se solo dall’altra parte non ci fosse “The Donald”. Insieme ad oltre 30 professori e pensatori cattolici, Weigel [uno dei più noti teologi americani] ha firmato a marzo un appello contro Trump. Nel testo si ricordava che “il partito repubblicano è stato negli ultimi decenni il veicolo per promuovere le cause sociali che più stanno a cuore ai cattolici americani”, come la difesa dei non nati, della libertà religiosa, del matrimonio tra uomo e donna. Ma questa possibilità è ora in pericolo perché “Donald Trump è manifestamente inadeguato a diventare presidente degli Stati Uniti” a causa della sua campagna elettorale infarcita di “volgarità”, per non parlare “degli appelli alle paure e pregiudizi etnici e razziali che urtano ogni genuina sensibilità cattolica”» (L. Grotti, ivi).
Si capisce perché l’arcivescovo di Filadelfia, già durante la campagna elettorale, abbia detto: «Credo che entrambi i candidati siano una brutta notizia per il nostro paese, sebbene in modi diversi» (ivi). E si capisce anche come mai molti cattolici, alla fine, abbiano preferito votare, turandosi il naso, per il “barbaro” Trump. Anche se forse avrebbero dovuto tenere più conto che, pur con le loro posizioni ideologiche in materia di bioetica e di etica sessuale, sono stati Obama e i democratici a spingere per rendere il sistema sanitario degli Stati Uniti meno inaccessibile ai poveri e che ridurre la dottrina sociale della Chiesa alla «difesa dei non nati, della libertà religiosa, del matrimonio tra uomo e donna» ricorda tanto quella logica dei «valori non negoziabili» che in Italia, purtroppo, per tanti anni ha fatto dimenticare ai cattolici altri valori, come la giustizia e l’accoglienza dei più deboli, senza cui non si costruisce una convivenza umana degna di questo nome.
Alla luce di questo quadro forse siamo in grado di capire meglio la vittoria di Trump. Non certo per rallegrarcene, ma per renderci conto che, se ha potuto sconfiggere la candidata della “civiltà”, è stato perché, dietro la trionfale bandiera delle «magnifiche sorti e progressive», come ironicamente le chiamava Leopardi, c’erano in realtà un sistema economico neocapitalistico che penalizzava larghi strati della popolazione e una ideologia laicista che era la parodia del progresso.
Personalmente sono affranto dall’esito di queste elezioni, come lo ero per i successi elettorali di Berlusconi nel mio Paese (tutti i commentatori concordano nel collegare i due personaggi). Ma non sarei stato affatto contento, per motivi diversi, neppure se avesse vinto la Clinton. La verità è che, ai miei occhi, la tragedia – e non solo degli Stati Uniti – consiste nel fatto che l’alternativa fosse tra una figura squallida, come quella di Trump, e una emblematica del sistema neocapitalistico, come quella della Clinton. E penso che, invece di stracciarci le vesti per questo triste esito, dovremmo lavorare a lungo termine – credenti e non credenti, uniti in questo impegno – per far rinascere una cultura politica degna degli esseri umani, di cui l’Occidente sembra avere smarrito perfino la memoria.
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