Nel suo articolo Competenze vs conoscenze? Impazza un (finto) dibattito, Maurizio Muraglia supera, con elegante efficacia, la stanca litania didattica della lotta fra “conoscenze” e “competenze”. Visto ciò che si legge in giro, è raro trovare articoli come questo, in cui la dicotomia discussa non viene semplicemente “cavalcata”, ma ripensata a fondo, e, soprattutto, riportata sul piano che le è proprio, e cioè quello schiettamente pedagogico, da un lato, e politico-sociale, dall’altro lato. Trovo del tutto condivisibili le lucide argomentazioni di Muraglia. Con alcuni punti da approfondire, in amichevole confronto con un collega di cui stimo la passione e l’acuta capacità di lettura di fenomeni che, vedendolo da tanti anni impegnato nel duplice ambito dell’insegnamento a scuola e della formazione dei docenti, rendono particolarmente degna di attenzione la sua riflessione.
Dopo aver denunciato il carattere artificioso della dicotomia conoscenze-competenze in alcuni autori oggi in voga, e dopo aver fatto vedere che nei loro discorsi le competenze gettate via dalla porta rientrano dalla finestra, Muraglia scrive:
«Come dire che per gli intellettuali italiani le competenze sono necessarie e auspicabili, mentre la “didattica per competenze” è un delirio inventato dai pedagogisti».
Non sottovaluterei questo passaggio. C’è differenza, infatti, fra competenze necessarie e auspicabili – intese come sviluppo o implicazione naturale delle conoscenze (Muraglia altrove parla delle competenze in termini di “evoluzione delle conoscenze”) – e “didattica per competenze”. È la stessa banale differenza che c’è fra una “conseguenza” e un “obiettivo”: proprio perché sono una conseguenza naturale dell’obiettivo “conoscenza”, le competenze non possono diventare l’oggetto di una “didattica” specifica. Se ne facciamo una “didattica”, infatti, invertiamo l’ordine spontaneo dell’apprendimento, mettendo il carro davanti ai buoi.
Mi limito a un esempio tratto dalla mia disciplina. Va di moda dire che noi docenti di filosofia dobbiamo insegnare non la filosofia ma a filosofare. L’obiettivo della nostra didattica sarebbe cioè non la “conoscenza” del pensiero (altrui), ma la “competenza” del pensare (in proprio). Si avverte subito la stonatura di una simile “inversione”. Non è infatti possibile imparare a pensare con la propria testa se, in primo luogo, non si è presa in prestito la testa di chi, come Platone, ha pensato prima, più e meglio di noi. E qui torna la precisazione di Muraglia sull’inseparabilità, almeno sul campo, di conoscenze e competenze: una filosofia che fosse studiata senza al tempo stesso acquisire la competenza del pensare in proprio, sarebbe ancora una “filosofia”? Sarebbe realmente “studiata”? Chi studia, se studia davvero, diventa “inesorabilmente” competente. Non ha scampo. Si ritroverà competente, per così dire, senza essersi mai posto l’obiettivo di diventarlo.
Il sospetto, a questo punto, è che lo “studio” separabile e contrapposto alla competenza non sia affatto ciò che chiamiamo “studio”, ma banale “apprendimento”. Solo se lo “studio”, con la sua componente “appetitiva” e di “desiderio”, viene declassato a pavloviano “apprendimento”, allora sì, avremo bisogno di riscattarne la povertà, “addestrando” i nostri alunni almeno a maneggiare efficacemente le informazioni morte che abbiamo loro trasmesso. Un sapere morto ma “produttivo”, infatti, potrebbe persino sembrare vivo.
Lo stesso Muraglia, tuttavia, propone un esempio di falsa dicotomia fra conoscenza e competenza che, sottilmente, sembra riprodurne una vera. È citata l’affermazione: “Guido Cavalcanti operò nella seconda metà del Duecento a Firenze, componendo testi poetici volti a rappresentare il tormento della passione amorosa”. Muraglia fa notare che sapere una cosa del genere riguarda l’«aspetto conoscitivo dello studio», un aspetto del quale tuttavia non si accontenterebbero nemmeno i più esaltati sostenitori del sapere puro e disinteressato. La sola conoscenza è necessaria, ma non basta. Non è tutto. È vero, aggiungo io, ma mi chiedo anche se non rischiamo così di attribuire, all’aspetto “conoscitivo” dello studio, le stesse caratteristiche stilizzate di quelle “conoscenze teoriche” che, poi, contrapponiamo indebitamente ad altrettanto stilizzate “competenze pratiche”. “Sapere” è davvero “soltanto” sapere? Sì, se il termine di confronto rimane la sua “applicazione pratica”, che ha nome “competenza”. Se, invece, il termine di confronto del sapere non è la sua applicazione “pratica”, ma il suo contenuto, allora capiamo subito che il “sapere”, anche quando è soltanto “sapere”, in un certo senso basta ed è già tutto. Come del resto suggerisce l’etimo della parola, “sapere” è infatti un certo “compiacersi”, “formarsi” e “aprirsi” a una realtà che, tramite lo studio, si offre come qualcosa di più denso di un semplice pacchetto di “informazioni” o “nozioni”, quali potrebbero essere quelle riassunte nella didascalica frase: ““Guido Cavalcanti operò nella seconda metà del Duecento… ecc.”.
A essere bisognoso di uno sviluppo pratico, insomma, è il “sapere” morto della “nozione”, non quello vivo della “relazione”, come evoca anche il verbo ebraico jadà, che significa tanto “conoscere” quanto “fare l’amore”. Leggendo Cavalcanti, Dante, Shakespeare, Platone e Proust, io non apprendo solo notizie circa pensieri, luoghi, contesti e tempi. Né mi limito a predisporre materiale da “attualizzare”, selezionando ciò che è vivo e ciò che è morto di quanto non c’è più. Leggendo realmente Cavalcanti, Platone e Proust, io “vedo” piuttosto una “verità” che prima non vedevo. “Assaporo” cioè qualcosa di me e del mondo, godendo di ciò di cui altrimenti non avrei goduto. Divento, a lungo termine, un certo tipo di persona. È la dimensione “formativa” del sapere, che, prima di coinvolgere il piano delle conoscenze e delle competenze che uno ha o non ha, incide su ciò che uno è. Essere un certo tipo di persona è il frutto maturo dello studio e della scuola. È una conoscenza? Non lo so. È una competenza? Non lo so. Ma è certo che nella persona ben formata la distinzione fra conoscenze e competenze è talmente sfumata, da non sussistere più. Magari perché non c’è mai stata, sin dall’inizio. Proprio come afferma Muraglia, e io con lui.
Proprio perché so che su quanto si è appena detto Muraglia è d’accordo, credo che occorra non sottovalutare il passaggio dalle competenze – che sul campo sono il naturale sviluppo delle conoscenze – alla “didattica delle competenze”. Il fatto stesso che questa distinzione sia possibile e divenga oggetto di dibattito non è, a mio avviso, un mero pretesto per parlar d’altro, come scrive Muraglia, ma il sintomo di un problema pedagogicamente reale: la didattica può mettersi pericolosamente contro i nostri alunni e le discipline che insegniamo. L’apprendimento pavloviano esiste. Ed esiste sul campo, non solo nella mente di pedagogisti manichei che vorrebbero combatterlo con le competenze anziché con lo studio. La polemica fra “umanisti” e “aziendalisti”, in tal senso, è una vera polemica, e non soltanto un dibattito politico mascherato. Che, come ricorda Muraglia, i primi non giungerebbero mai a negare davvero ciò che enfatizzano i secondi, e viceversa, dimostra non che lo scontro è un pretesto per parlar d’altro, ma che è uno scontro di priorità. Non si tratta cioè di stabilire se la didattica debba essere al servizio della conoscenza (umanisti) o della competenza (aziendalisti), ma quale delle due debba venire “prima” dell’altra, e, dunque, come si diceva prima, cosa, nella pianificazione didattica, debba essere “obiettivo” e cosa “conseguenza”.
Tutto ciò non toglie, naturalmente, la valenza “politica” sottolineata da Muraglia. Una volta che però si riconosca che il problema “conoscenze-competenze” è di gerarchia e non più di reciproca esclusione, allora si ridimensiona la stessa dicotomia a cui Muraglia fa appello, con Gramsci, alla fine del suo articolo. Se lo studio non è aristocratico distacco dell’umanista dal manovale, perché non è mai “solo” conoscenza, ma anche competenza, e se la competenza non è mai pragmatismo stupido, ma sempre anche “intelligenza in azione”, denunciare, con Gramsci, la dissociazione del sapere dalla realtà, finisce per riportarci indietro alla dicotomia appena superata, negandola quando ne discutono i pedagogisti, riproponendola quando ne facciamo l’oggetto del nostro discorso politico. Svelare il retroscena politico della guerra pedagogica fra umanisti e aziendalisti, insomma, non può farci passare dal contrasto fra conoscenze e competenze a un conflitto fra “aristocrazia di un sapere puro” e “democrazia di un sapere pratico”. Se così fosse, infatti, il falso dibattito fra conoscenze e competenze sarebbe non smascherato, ma proseguito, benché con altri mezzi. E, cosa ben più grave, resterebbe intatta la caricatura di quel reale processo di apprendimento e insegnamento che a Muraglia, come a me, sta invece a cuore riscattare.
Mi sia consentito un ultimo esempio, che ha visto peraltro proprio Muraglia come iniziale protagonista, grazie a una sua lettera-appello rivolta ai dirigenti delle scuole siciliane. Nella lettera, pubblicata su “La Repubblica” del 29 agosto 2018, Muraglia invitava a riscoprire la vocazione genuinamente “politica” – non “partitica” – della scuola, sollecitata a esporsi, anche socialmente, per fronteggiare l’emergenza “razzismo” e “populismo” di cui tanto si discute nel dibattito pubblico del nostro Paese.
Cosa significa, in questi casi, formare nei nostri alunni le adeguate “competenze di cittadinanza”? Se è vero quanto si è sin qui detto, più che insegnare a combattere il razzismo direttamente, la scuola dovrebbe mettere i giovani in condizione di conoscerlo, e dunque di ri-conoscerlo, per poi contrastarlo nelle forme ritenute più opportune dal singolo. In caso contrario la scuola rischia di veicolare, dietro l’ovvietà che il razzismo è sbagliato, la particolare concezione politica del singolo docente. Che potrebbe sia non vedere il razzismo dove il giovane, se ne avesse gli strumenti, lo vedrebbe, sia vederlo dove il giovane, sempre se ne avesse gli strumenti, non lo vedrebbe. E avremmo un altro esempio di “inversione” della naturale evoluzione da “conoscenze” a “competenze”, in cui le seconde, invece di essere una conseguenza autonoma delle prime, diventano un obiettivo di immediata somministrazione, che finisce per strumentalizzare ideologicamente la conoscenza da cui, invece, sarebbero dovute scaturire spontaneamente e autonomamente.
Concludo. Non dobbiamo scegliere necessariamente fra Gentile e Gramsci (o Dewey). Rimarremmo ostaggio di quella dicotomia che, se può essere vera in termini di dialettica politica e sociale, è falsa e astratta nelle aule delle nostre scuole. Aule che, in questo senso – ma solo in questo senso – dovrebbero essere poste al riparo da quelle battaglie, recuperando quell’interruzione del frastuono cittadino che, a mo’ di pausa di riflessione istituzionalizzata, la parola scholè, nonostante tutto, continua ancora a evocare. Suona troppo umanista e poco aziendalista? Solo alle orecchie di chi, ancora prigioniero di una falsa alternativa, dimentica che sapere, conoscere e avere idee, significa “vedere”. E chi non vede, lo si sa, non può andare da nessuna parte. A meno di non essere guidato da altri…
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