Minacce di morte per l’autrice di Harry Potter
Può sorprendere che, nel nostro tempo, ci siano ancora dei dogmi di cui è molto pericoloso mettere in discussione la verità e che esista una nuova versione dell’Inquisizione, impegnata a perseguitare chi li contraddice.
Ancora più sorprendente può apparire il fatto che queste esplosioni di fondamentalismo si stiano verificando non nell’Afghanistan dei talebani, di cui sulla nostra stampa si è giustamente denunciata l’intolleranza, ma nel Paese occidentale tradizionalmente all’avanguardia nella lotta per i diritti di libertà, il Regno Unito. Proprio questa collocazione, peraltro, rende il fenomeno un inquietante sintomo di tendenze che da tempo affiorano in varie parti d’Europa e di cui abbiamo le avvisaglie anche in Italia.
Mi riferisco alla vicenda – per la verità non molto evidenziata sui nostri quotidiani – che coinvolge la notissima scrittrice Joanne Rowling, meglio conosciuta con lo pseudonimo di J. K. Rowling. Ormai da circa tre anni la creatrice della saga di Harry Potter è oggetto di un vero e proprio linciaggio morale per le sue posizioni sul tema del gender. Ora sembra si stia passando a un livello più alto di aggressività, che comporta anche una minaccia fisica.
Proprio in questi giorni tre attivisti per i diritti dei transgender hanno pubblicato sui social la fotografia della villa dove la Rowling abita con il marito e i figli, additandola evidentemente come bersaglio per azioni “punitive”. La Rowling ha risposto ribadendo la sua risoluta volontà di resistere anche a questo tipo di pressioni: «Dovrebbero riflettere», ha dichiarato, «sul fatto che ho ricevuto così tante minacce di morte che potrei tappezzare la casa, ma non ho smesso di parlare».
Da parte sua, il premier britannico Boris Johnson ha espresso, tramite un suo portavoce, la propria solidarietà alla scrittrice: «Nessun individuo dovrebbe essere preso di mira in quel modo. Tutti hanno il diritto di essere trattati con dignità e rispetto e le persone devono essere in grado di condividere le proprie opinioni allo stesso modo».
Si ha il diritto di dire che le donne sono donne?
L’episodio in questione è solo l’ultimo capitolo di una vicenda che si svolge ormai da quasi tre anni e che vede coinvolti non soltanto degli isolati fanatici, ma l’opinione pubblica inglese.
Tutto è cominciato alla fine del 2019, quando Maya Forstater, una ricercatrice del Center for Global Development, si era espressa su Twitter contro alcune proposte di riforma (poi in realtà respinte) del “Gender Recognition Act”, che prevedevano il cosiddetto self-id o autocertificazione di genere: in parole povere la possibilità per chiunque di decidere in totale libertà a quale genere appartenere, a prescindere dal proprio sesso biologico e senza alcuna diagnosi, perizia o sentenza.
«Gli uomini non possono trasformarsi in donne», aveva scritto senza mezzi termini, in quell’occasione, la Forstater. Quando, per questo suo intervento, non le era stato rinnovato il contratto, la ricercatrice aveva fatto ricorso al tribunale, che però aveva confermato il licenziamento giustificandolo con la sua visione «assolutistica» e con le sue idee non «degne di rispetto in una società democratica».
A proposito di questa vicenda la Rowling era intervenuta su Twitter: «Vestitevi come volete», aveva scritto. «Chiamatevi come volete. Andate a letto con ogni adulto consenziente che volete. Vivete la vostra vita al massimo, in pace e sicurezza. Ma far perdere il lavoro a una donna per aver dichiarato che il sesso è una cosa reale?». Le comunità Lgbt sono insorte contro questa presa di posizione e l’avevano aspramente criticata.
Ma era solo l’inizio di un contrasto destinato ad acuirsi sempre di più. Perché pochi mesi dopo, nel giugno 2020, la Rowling, sempre su Twitter, è di nuovo intervenuta, ironizzando sul titolo di un articolo dove si auspicava un mondo più equo «per le persone che hanno le mestruazioni»: «Sono sicura» – scriveva – «che ci fosse una parola per definire quelle persone. Qualcuno mi aiuti. Wumben? Wimpund? Woomud?»: ma sì, il termine censurato era “Women”, “donne”.
Di nuovo pioggia di critiche per questa sottolineatura della dimensione sessuale dell’identità femminile. Il giorno dopo, la scrittrice ha provato a fare chiarezza twittando: «Conosco e amo le persone trans, ma cancellare il concetto di sesso significa rimuovere la capacità di molti di discutere in modo significativo delle loro vite. Dire la verità non vuol dire odiare». Ma il suo sforzo di dialogo non ha avuto successo.
Neppure quando ha ribadito che il suo intento non era di mettere in discussione «il diritto di ogni persona transgender di vivere nel modo che ritenga più autentico e adeguato.». A questo proposito, anzi, precisava: «Marcerei con voi se foste discriminati per il fatto di essere trans. Allo stesso tempo, la mia vita è stata modellata sull’essere donna. Non credo che questo sia deprecabile dirlo».
A nulla è valso neanche il riferimento autobiografico, pubblicato sul suo sito, in cui raccontava alcune traumatiche esperienze vissute da ragazza per spiegare la sua convinzione che sia necessario mantenere spazi dedicati alle donne. «Quando apri le porte di bagni e spogliatoi a ogni uomo che si crede donna, allora apri la porta a tutti gli uomini che vogliono entrare. Questa è la semplice verità».
Una vicenda italiana
È esattamente la stessa difficoltà sollevata in Italia da 17 associazioni femministe, tra cui Arcilesbica, a proposito della definizione, contenuta nell’art. 1 del ddl Zan, dell’«identità di genere»: «Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».
Le associazioni femministe avevano obiettato che una simile visione non rispetta la peculiarità dell’identità femminile e i suoi spazi propri. E citavano un caso di attualità verificatosi negli Stati Uniti: «In California 261 detenuti che “si identificano” come donne chiedono il trasferimento in carceri femminili». Con grande allarme delle donne in senso biologico detenute in queste carceri.
Ma si potrebbe pensare anche al problema delle gare sportive e a tutti gli altri casi in cui un maschio potrebbe rivendicare il diritto di essere considerato “donna” perché “si sente” tale, senza alcuna ulteriore verifica di ordine medico. Nel documento delle associazioni femministe si osserva: «Il “genere” in sostituzione del “sesso” diviene il luogo in cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere occupato dagli uomini che si identificano in “donne” o che dicono di percepirsi “donne”».
Tra isolamento e solidarietà
Sta di fatto che la polemica contro la Rowling è montata sempre di più. Anche gli attori che avevano recitato nei film ispirati alla saga creata dalla scrittrice l’hanno attaccata. «Le donne transgender sono donne», ha ribadito Daniel Radcliffe, alias Harry Potter. E l’attrice Emma Watson, Hermione nelle pellicole sul maghetto: «I trans meritano di vivere la loro vita senza che siano altri a definirli».
A difendere la Rowling, tra questi interpreti, è rimasto solo Ralph Fiennes, che nella saga cinematografica su Harry Potter ha rivestito il ruolo del “cattivo”, Lord Voldemort: «Trovo questa epoca di accuse e il continuo bisogno di condannare semplicemente irrazionali. Trovo inquietante il livello di odio che le persone esprimono nei confronti di chi ha opinioni diverse dalle loro, e la violenza del linguaggio verso gli altri».
In questo clima fortemente critico, la scrittrice è stata però anche supportata nell’opposizione a politically correct e cancel culture da 150 intellettuali – tra cui Noam Chomsky, Salman Rushdie, Margaret Atwood (autrice femminista, ma a sua volta accusata aspramente di non esserlo abbastanza) e la stessa J.K. Rowling, – che, in una lettera aperta pubblicata su «Harper’s Magazine» nel luglio 2020, hanno denunciato il pericolo di una nuova intolleranza che finisce per reprimere la libertà di pensiero e parola.
Quello della Rowling non è un caso isolato
Il problema, infatti, non riguarda solo Joanne Rowling. Si è già accennato prima al fatto che lei stessa è entrata nel vortice degli attacchi per aver difeso una ricercatrice, Maya Forstater, licenziata per aver contraddetto pubblicamente le tesi del movimento Lgbt. Ma si possono fare altri nomi.
Il più noto, forse, è quello di Kathleen Stock, docente di filosofia dell’Università del Sussex, femminista e lesbica, recentemente insignita del titolo di Ufficiale dell’ordine dell’impero britannico per i suoi meriti accademici.
La Stock qualche mese fa è stata costretta ad abbandonare la sua cattedra e l’insegnamento a causa delle minacce, e alle persecuzioni cui studenti e colleghi la avevano sottoposta per le sue idee, etichettate come “transfobiche”, in materia di sesso biologico e identità di genere. Le intimidazioni nei suoi confronti erano giunte a un punto tale da indurre la polizia a farle ingaggiare una guardia del corpo, installare camere di videosorveglianza davanti a casa, nonché darle un numero di emergenza da chiamare in caso di pericolo. Da qui le forzate dimissioni.
È solo un esempio e non certo isolato, se nel febbraio 2021 il ministro dell’Istruzione Gavin Williamson si è detto preoccupato perché «sempre più spesso, negli atenei britannici, i docenti vengono zittiti o censurati». Si noti, peraltro, che questa intolleranza, pur minacciando tutti (se non altro come pressione all’autocensura), oggi colpisce soprattutto le donne impegnate in una professione intellettuale, specie se femministe.
Non si accetta che proprio loro, pur nel pieno rispetto di tutte le possibili variabili, ribadiscano il sussistere delle identità sessuali e della differenza tra quella maschile e quella femminile. Il caso del Regno Unito è emblematico di un pericolo con cui oggi anche in Italia siamo chiamati a confrontarci.
È giusto riprendere i problemi reali a cui il ddl Zan voleva far fronte, problemi che non possono essere considerati certo superati per il suo affossamento. Ma nel farlo bisognerà tenere presente il contesto culturale in cui ci muoviamo, per evitare che il giusto rispetto per alcune categorie di persone si traduca in una minaccia alla libertà di pensiero e di espressione di tutti gli altri.
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