di Luciano Sesta
Con l’avvicinarsi del giorno in cui il Parlamento dovrà esprimersi sulle unioni civili e sulle adozioni gay, sale la pressione della società civile sulla politica. Una pressione del tutto lecita, ma anche sempre più scomposta, come dimostra l’ultima ed ennesima battaglia, scattata sui giornali, in tv e sui social network, fra i favorevoli e i contrari al ddl Cirinnà: una petizione firmata da 400 esponenti del mondo accademico, della cultura e dello spettacolo, vale di più o di meno di migliaia di famiglie radunatesi a Roma? A chi voglia riflettere fuori degli schemi, senza rinunciare a esprimere una posizione, viene subito da dire che, se nella coscienza di un parlamentare esistono diritti civili delle coppie omosessuali, le migliaia di famiglie scese in piazza a Roma non possono cancellarli, così come, allo stesso modo, se esiste un diritto dei minori ad avere un padre e una madre, nessun parlamentare che ne sia convinto metterà in secondo piano un tale diritto solo perché lo chiedono Jovanotti, Luciana Litizzetto o illustri professori di Fisica dell’Università italiana.
È in gioco, come abbiamo ricordato in un nostro precedente intervento (Il Parlamento, il voto segreto e la “buona” politica), non solo il giusto rapporto fra società civile e politica – in cui la seconda deve certamente tenere conto della prima, senza però esserne un semplice e passivo rispecchiamento – ma anche un dovere di onestà nei confronti del merito dei problemi, che spesso risultano travisati sia dalle manifestazioni di piazza sia dagli appelli firmati dalle grandi personalità. La logica che prevale, infatti, è quella di “sconfiggere” il proprio nemico politico, utilizzando tutti i mezzi a disposizione, fra i quali sta diventando sin troppo frequente quello della deformazione retorica della posizione altrui e, purtroppo, anche della semplificazione, al limite della falsificazione, della realtà di cui si sta parlando.
L’appello dei 400, per esempio, auspica che il Parlamento si affretti ad approvare il ddl Cirinna’ a beneficio di «milioni» di cittadini che soffrono, perché ingiustamente privati dei loro diritti. Ora, chi ha scritto queste parole, ha anche energicamente contestato che al Family Day i partecipanti fossero davvero 2 milioni, come dichiarato dagli organizzatori. E infatti non lo erano. Ma allora perché usare la medesima strategia, dicendo che ci sono “milioni di italiani” che, addirittura, sarebbero «in estenuante attesa di esistere agli occhi dello Stato», quando, secondo recenti dati Istat, le coppie omosessuali, in Italia, sono attualmente poco meno di 8.000 (C. Zunino, Unioni civili, i numeri delle famiglie gay: “Sono meno di 8mila e solo in 500 hanno figli”, “La Repubblica”, 1 febbraio 2016)? A voler essere generosi con gli estensori dell’appello, potremmo includere, fra i “milioni” di italiani di cui essi parlano, anche coloro che, omosessuali, non hanno però un partner o non sono interessati ai diritti civili previsti dal ddl Cirinnà. In tal caso, però, si tratterebbe di cittadini che, come tutti gli altri, hanno i loro diritti, e non certo di persone “in attesa di esistere agli occhi dello Stato”.
Un appello firmato da uomini di cultura e con grande esperienza mediatica, in tal senso, non sarebbe dovuto cadere nel meccanismo di azione e reazione tipico della polemica politica, in cui a slogan retorici se ne contrappongono altri. Gli estensori dell’appello sarebbero stati molto più efficaci se avessero scritto, anziché “milioni di italiani”, qualcosa del tipo: “tanti cittadini che, pur essendo una minoranza rispetto alla popolazione, non per questo godono di minori diritti di tutti gli altri”.
Quando si tratta di riconoscere dei diritti, il numero dei titolari, in effetti, non ha nessuna importanza. Se in un paese vi fosse una sola persona invalida, questa non smetterebbe di avere dei diritti per il semplice fatto di non rappresentare la popolazione ma solo se stessa. Ma se è cosi, allora perché giocare sui numeri? Si potrebbe sospettare, maliziosamente, che trattandosi di diritti già riconosciuti nell’ordinamento italiano alle coppie di fatto (cfr., fra le varie tipologie di diritti rivendicati, legge 354 del 1975; legge 91 del 1999; sentenza della Corte costituzionale 404 del 1988), la loro rivendicazione risulti giuridicamente superflua, e perciò bisognosa di essere compensata “gonfiando” il numero di coloro che ne sarebbero privi. Il che confermerebbe che il ddl Cirinnà chiede un riconoscimento solo simbolico, ossia finalizzato a “benedire” socialmente le unioni gay, piuttosto che a tutelare diritti di cui esse già godono come coppie di fatto. Che questa richiesta provenga da personalità accademiche e da personaggi famosi, magari molto amati dalla gente, dovrebbe poi fare il resto, inducendo l’ingenuo lettore, e chissà, forse anche il parlamentare di turno, a sposare l’appello.
A quest’ultimo riguardo, è interessante notare che, se al Family Day, così come alle diverse manifestazioni arcobaleno, confidando nella logica del numero si è cercato di lanciare un forte messaggio al Parlamento, nella speranza di offrire uno spaccato di quello che è il sentire comune della società civile, nell’appello dei 400 si confida piuttosto in una logica d’élite, che presuppone una superiore autorevolezza dell’opinione del cittadino “famoso” e “colto” su quello “comune” e “semplice”. Anche qui, però, c’è dietro un sofisma. Se un docente universitario di Fisica è a favore delle adozioni gay, infatti, può esserlo come cittadino, non come docente di Fisica. Il suo parere, in tal senso, vale tanto quanto quello, contrario, di un umile artigiano sceso in piazza al Family Day. E se personaggi come Jovanotti e Daria Bignardi si esprimono a favore delle adozioni gay, in questo giudizio non impegnano le competenze artistiche e mediatiche che li hanno resi famosi e per le quali ora chiedono l’attenzione del Parlamento, ma la loro coscienza civile, che non è più autorevole di quella di qualunque altro cittadino in grado di esprimerla. A chi ha ironizzato sulla logica della piazza considerandola familista e populista, insomma, si può facilmente far notare che, in ogni appello firmato da grandi personalità, è implicito uno snobismo culturale inaccettabile.
Uno snobismo culturale, ci sarebbe da aggiungere, che ha ben poco di culturale, se cultura è, innanzitutto, attenzione alla realtà e alle sue sfumature. Se davvero, come ritengono i firmatari dell’appello, ci fossero “milioni” di italiani privati sistematicamente di «diritti umani fondamentali», quali potrebbero essere le “crudeli” ragioni di chi si oppone alla loro tutela? Evidentemente le cose sono ben più complesse. La verità è che non ci sono qui i difensori dei diritti umani, da una parte, e i loro nemici, dall’altra parte, ma persone ragionevoli che enfatizzano, talvolta unilateralmente e per spirito polemico, il punto di vista dei diversi soggetti in gioco, ossia le coppie omosessuali, da un lato, i minori adottabili, dall’altro lato.
Accade, invece, che di fronte al Family Day che demonizza il ddl Cirinnà attribuendogli ogni abominio, incluso l’utero in affitto – che pure potrebbe esservi collegato sottobanco – , l’appello dei 400 non trova di meglio che santificarlo, presentandolo come l’unica speranza per i «bambini» che, a causa della sua mancata approvazione, «oggi crescono privati dei loro diritti». Il numero di coppie gay con prole, secondo gli ultimi dati Istat, è in Italia di poco meno di 600. Quando si citano cifre superiori, ci si riferisce, spesso senza specificarlo, non a minori che vivono con coppie omosessuali, ma a figli di genitori, uomo e donna, che successivamente si dichiarano omosessuali. E che sarebbero quelli interessati alla famosa stepchild adoption. Ma, anche qui, occorre dire che non c’è alcun bambino che rischia di non essere tutelato se il ddl Cirinnà non venisse approvato. Già adesso, infatti, in caso di morte o abbandono da parte di uno dei due genitori, il compagno dell’altro, omosessuale o eterosessuale che sia, può adottare il bambino, in forza di quella che i giudici chiamano “continuità affettiva”. I diritti di alcuni bambini residenti in Italia, che l’appello dei 400 fa credere tutelabili esclusivamente mediante l’approvazione del ddl Cirinnà, sono dunque già previsti da qualunque tribunale dei minori.
Insomma, come abbiamo cercato di mostrare in alcuni nostri interventi precedenti, quando si tratta di questioni di etica pubblica, la piazza (Per un’etica della lotta civile), la scienza (A proposito di adozioni omoparentali. Osservazioni su un recente documento), e il mondo accademico e dello spettacolo, soffocano un confronto diretto sui temi, spostando l’attenzione dalle ragioni che dovrebbero confrontarsi al diverso grado di forza numerica, autorevolezza e appeal dei contendenti. Ma in questo modo non potremo mai stabilire cosa è giusto e cosa non lo è. Al parere di una piazza si contrappone sempre quello di un’altra piazza. A quello di uno scienziato quello, contrario, di un altro studioso. E a quello di una star, quello di un’altra star. Che fare, allora? Scegliere, in base al proprio senso della giustizia, il parere che si ritiene adeguato, senza demonizzare quello contrario, ed evitando, inoltre, di far credere che le proprie competenze professionali o il proprio status sociale possano dotare la propria opinione di una superiore validità rispetto a quella di chiunque altro. Un’opinione è apprezzabile non per il numero di persone che la condividono (Family Day) o per il grado di fama di chi la esprime (Appello dei 400), ma per le buone ragioni che si adducono a suo sostegno. E tale, ci sembra, è una delle opinioni recentemente espresse da Giovanni Maria Flick, ex presidente della Consulta ed ex guardasigilli, che alla domanda: “se le coppie tradizionali possono adottare uno dei figli del coniuge, perché ciò dev’essere negato a quelle gay?”, ha risposto: «Perché il diritto del bambino ad avere due genitori di sesso diverso non è la stessa cosa del diritto dei due componenti della coppia omosessuale ad adottare il figlio di uno di loro. Solo l’interesse del bambino può giustificare il riconoscimento del legame adottivo» (L. Milella, Giovanni Maria Flick: “Costituzionale anche con la stepchild”, “La Repubblica”, 22 febbraio 2016).
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