Non sarà la guerra a portare la pace
«L’Ucraina attualmente non ha forze sufficienti per riconquistare il Donbass e la Crimea con mezzi militari. Possiamo contare solo sulla pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin a sedersi al tavolo delle trattative». Per la prima volta, il presidente ucraino Zelens’kyj ha riconosciuto che non sarà la vittoria in guerra a portare la pace.
Finora, nei suoi discorsi, il termine “pace” era stato sistematicamente sostituito da quello “vittoria”. La sola pace che egli dichiarava di volere era quella ottenuta sconfiggendo sul campo gli invasori russi.
Una posizione esattamente simmetrica a quella di Putin e non meno lontana da ogni apertura a qualsiasi trattativa. In coerenza con questa impostazione, il tanto atteso piano di pace che Zelens’kyj ha presentato nello scorso ottobre al parlamento di Kiev era intitolato «piano di vittoria».
Anche il “Convegno per la pace in Ucraina”, solennemente convocato in Svizzera il 16 e 17 giugno precedente, era stato fin dall’inizio concepito non come una prova di negoziato per mettere fine alle ostilità – la Russia non era stata neanche invitata – ma come una chiamata a raccolta dei sostenitori di Kiev in questa guerra.
E in questi più di due anni di guerra la sola ripetuta, assillante richiesta del leader ucraino è stata quella di altre armi, a suo dire decisive per salvare non solo l’Ucraina, ma l’intero Occidente dall’aggressività di Mosca.
Richiamando spesso l’antico detto «si vis pacem para bellum», “se vuoi la pace prepara la guerra”, ma in una nuova e ben diversa versione: «Si vis pacem fac bellum», “se vuoi la pace fai la guerra”.
Una guerra per procura?
E su questa linea si sono accodati a Zelens’kyj, senza riserve, fin dall’inizio, tutti i leader occidentali, incalzati dalla foga oratoria e diplomatica del presidente ucraino, che ossessivamente li accusava di non fare abbastanza per sostenere il suo paese.
Così la NATO ha sempre più assunto il ruolo di protagonista diretto dello contro, tanto da far parlare di una “guerra per procura” combattuta dagli ucraini per conto terzi.
L’iniziale intento di difendere i diritti di un popolo aggredito e oggetto di violenze inaudite, evidenziate dalla terribile strage di Bucha, si è ben presto trasformato in quello di umiliare la Russia per farne – secondo le parole del presidente americano Biden – «un paria», isolandola «dal palcoscenico internazionale».
Da qui, lo stanziamento di cifre enormi per rispondere alle continue richieste di armamenti del leader ucraino. Per la UE, la von der Leyen ha parlato di una spesa di 130 miliardi di euro e, solo dal febbraio 2022 all’ottobre 2023, il Congresso degli Stati Uniti ha destinato 113 miliardi di dollari. Con il conseguente arricchimento di coloro che producono e commerciano armi.
Da qui, una serie impressionane di sanzioni economiche, pagate a caro prezzo soprattutto dall’Europa, il cui effetto inevitabile sarebbe stato – si ripeteva con sicurezza – di mettere in ginocchio in breve tempo l’economia russa.
Da qui, soprattutto, una demonizzazione della Russia che non ha precedenti, neppure in altri episodi di aggressioni unilaterali (niente di simile si era fatto contro gli Stati Uniti, quando nel 2003 avevano attaccato l’Iraq sulla base di prove riconosciute poi false). Il Comitato Olimpico Internazionale, in un comunicato – pur riconoscendo «la sua missione di contribuire alla pace attraverso lo sport e di unire il mondo in una competizione pacifica al di là di ogni disputa politica» – , in conseguenza di questa guerra raccomandò «vivamente» a tutte le federazioni mondiali di «non invitare atleti russi e bielorussi» nelle competizioni sportive internazionali.
Su questa direttiva si sono subito mossi gli organismi internazionali responsabili dei diversi tipi di sport. Il 1 marzo scorso era stata la Federazione internazionale di sci (FIS) a prendere una analoga decisione: «Per garantire la sicurezza e la protezione di tutti gli atleti nelle competizioni FIS, il Consiglio FIS ha deciso all’unanimità, in linea con la raccomandazione del CIO, che con effetto immediato nessun atleta russo o bielorusso potrà partecipare ad alcuna competizione FIS a qualsiasi livello, sino alla fine della stagione 2021-2022».
Il 3 marzo il Cda del Comitato paralimpico internazionale – sempre ribadendo con fermezza l’esigenza «che sport e politica non debbano mescolarsi» – decise che gli atleti di Russia e Bielorussia non avrebbero potuto partecipare alle imminenti Paralimpiadi invernali di Pechino.
In un primo momento si era ipotizzato che lo facessero da “neutrali”, senza essere inquadrati ufficialmente nelle squadre dei loro rispettivi Paesi, ma poi questa misura sembrò troppo blanda e si optò per una esclusione non solo delle squadre, ma dei singoli atleti in base alla loro nazionalità.
Dall’hockey su ghiaccio, al basket, fino alla dama: russi e bielorussi furono messi fuori da tutte le competizioni mondiali ed europee. Nella stesa logica, la Nazionale russa di calcio fu esclusa dai Mondiali e i club russi dai tornei internazionali.
Perfino gli organizzatori del torneo di tennis di Wimbledon, il più antico del mondo, si ritennero obbligati, «con profondo rammarico», ad escludere dalla successiva edizione – per «limitare l’influenza della Russia» – tennisti famosi come Medvedev, allora numero due del mondo, e Andrej Rublëv, numero otto, che pure si erano pronunziati contro la guerra, ma erano irrimediabilmente russi.
Nei teatri occidentali furono boicottate rappresentazioni teatrali, spettacoli musicali, attori, registi, perché russi. Niente di paragonabile a ciò che è poi accaduto davanti a quelli che la Corte penale internazionale» ha definito i «crimini di guerra» di Israele, condannando il suo premier Netanyahu come aveva condannato quello russo Putin.
La fine di un’illusione
Non sono un politologo e tanto meno un profeta, ma già allora – nell’aprile dal 2022 – ho pubblicato su «Tuttavia» un chiaroscuro dal titolo: «Non è così che si costruisce la pace». Sforzandomi di spiegare, in diversi chiaroscuri successivi, che demonizzare e isolare il nemico, nella convinzione così di ottenere la pace vincendo la guerra, si è sempre rivelata solo una tragica illusione.
Un’illusione che, nel caso dell’Ucraina, è stata pagata sulla loro pelle dalle centinaia di migliaia di giovani morti o feriti in quasi tre anni di accaniti quanto sterili combattimenti.
Gli sviluppi del conflitto hanno confermato questa facile previsione. L’economia russa non è crollata (mentre sono entrate in crisi quelle di Germania e Francia). Anzi il tentativo di chiuderla in un cordone sanitario ha avuto come effetto quello di rafforzare i legami della Russia con Brasile, India, Cina e Sudafrica (il Brics), a cui si stano aggiungendo sempre nuovi paesi del Sud del mondo interessati al progetto di sostituire il dollaro come moneta degli scambi internazionali.
Ma è soprattutto sul campo che lo scenario è progressivamente peggiorato. L’esercito russo, dopo una partenza disastrosa, si è riorganizzato e sta facendo inesorabilmente valere la sua superiorità numerica, avanzando nel Donbass.
Le armi sono state date, ma le guerre le fanno gli uomini, e all’esercito ucraino mancano. Non solo a causa delle perdite – inferiori a quelle russe, ma pur sempre enormi -, bensì per la fuga dei suoi soldati dal fronte – si parla di più di 100.000 disertori (alcune fonti addirittura di 170.000) – e per la renitenza alla leva dei più giovani, che si nascondono o si rifugiano all’estero per sfuggire al reclutamento. Solo in Germania – riporta il quotidiano «Bild,» citando i dati del ministero degli Interni – tra il febbraio 2022 e il febbraio 2023 sarebbero arrivati ben «163.287 ucraini maschi e normodotati». Altri 80mila in Polonia…
Ora l’avvento di Trump, alla presidenza degli Stati Uniti, ha ulteriormente compromesso le già tenui prospettive di resistenza dell’Ucraina. Già prima delle elezioni il nuovo presidente americano ha dichiarato di non voler più sostenere economicamente questa guerra e di non voler più mantenere in piedi la NATO, che ne è stata finora la principale protagonista.
Zelens’kyj aveva cercato di anticipare i tempi chiedendo l’ingresso immediato dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica. Richiesta che è stata respinta, però, facendo notare che esso avrebbe l’effetto di determinare automaticamente l’entrata in guerra di tutti gli altri membri, trasformando il conflitto in atto nella terza guerra mondiale. Un prezzo che il presidente ucraino era evidentemente disposto a pagare, sempre in nome della vittoria finale, ma gli altri Stati no.
E ora i nodi sono al pettine. C’è ancora chi parla senza esitazioni di vittoria, come il premier del Belgio De Croo. Ma altri capi di governo, cominciano a essere meno netti che in passato. È il caso della Meloni – pur strenua sostenitrice dell’Ucraina – , che, al recente summit della NATO, ha detto: «Forse dobbiamo tutti prendere atto delle condizioni, della situazione sul terreno, dei dati di realtà», riconoscendo che «gli italiani fanno sempre più fatica a sostenere il nostro sforzo».
In un tweet su X il cancelliere tedesco Scholz ha fatto sapere che, durante una conversazione telefonica con Trump, ha concordato con lui «che è importante intraprendere il percorso verso una pace giusta per l’Ucraina il prima possibile». E anche il neo-presidente del Consiglio europeo, Costa, ha sostituito allo slogan dell’immancabile vittoria, l’auspicio che quella che si realizzerà sarà «una pace duratura, non una capitolazione».
Si ricomincia, insomma, a parlare della necessità di una pace che non sia il frutto della vittoria. Si ammette, insomma, che non sono le armi a poterla produrre. Si profila un negoziato che, con ogni probabilità, sancirà le richieste russe che già erano state accolte con gli accordi di Minsk, prima della guerra. Ma questo avviene dopo un numero di morti e di feriti che sembra raggiunga i 500mila.
Non può non sorgere, prepotente, la domanda: «Ne valeva la pena?». Torna alla mente il grido di papa Francesco: «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell’umanità. Non esistono le guerre giuste, non esistono!». Qualche giornale ha ricordato anche le parole di papa Benedetto XV, che scongiurava di fermare il primo conflitto mondiale, definendolo una «inutile strage». Una espressione che purtroppo – come diventa sempre più chiaro – esprime perfettamente il nonsenso di questa guerra.
Troppo facile dire che non ne valeva la pena, troppo facile per chi lontano da quel teatro di guerra non è direttamente toccato. La pace è un’aspirazione che ci accomuna tutti ma, a mio modo di vedere, la stessa non può coincidere con l’accettazione della sopraffazione anche se quest’accettazione ha significato lutti e sofferenze inenarrabili. D’altra parte, per tornare alla vicenda che ci appassiona, gli stessi ucraini, non hanno mai messo in dubbio la volontà di resistere e, anche se ci sono stati molti renitenti fuggiti all’estero per salvare la pelle, non mi risulta che abbiano contestato le scelte del loro leader. In quanto al grido di dolore espresso dalle parole di Benedetto XV sull’inutile strage, avevano riferimento ad un contesto diverso rispetto a quello a cui stiamo assistendo nella terra di San Vladimiro di Kiev