15 maggio 2016 – domenica di Pentecoste
15 Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16 e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. 23 Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24 Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. 25 Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi.26 Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Lo Spirito Santo è presenza di consolazione e di protezione, di coraggio e discernimento, di insegnamento e di memoria. Una presenza che rende il Padre ed il Figlio realtà vivide ed operanti nella nostra vita, ma che non si può conoscere, bensì essenzialmente riconoscere.
Conoscenza e riconoscimento (cui è collegata anche la “riconoscenza”) sono, infatti, dimensioni da tenere ben distinte. Chiunque abbia sperimentato la ricerca di Dio nella propria vita è conscio del fallimento dei propri tentativi di conoscere o comprendere Dio (termine quest’ultimo che, in sé, implica anche una dimensione di possesso), mentre forse potrà più probabilmente affermare di aver riconosciuto la presenza del Signore in una determinata circostanza, in una parola, in un gesto.
Ecco, quel riconoscimento è presenza dello Spirito di Dio che agisce in noi e l’evangelista Giovanni, autore del brano evangelico che sarà celebrato domenica prossima (e che abbiamo quasi integralmente già incontrato appena due domeniche fa), lo sottolinea con forza quando mette in bocca a Gesù l’annuncio di una presenza permanente che renderà attuale la figura di Gesù nel tempo successivo alla Resurrezione.
Nell’ebraismo la Pentecoste era una delle tre festività, dette Shalosh regalim (tre pellegrinaggi), denotanti feste di pellegrinaggio – a Gerusalemme. La festività ebraica era legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio sul Monte Sinai, dove Dio ha donato al popolo ebraico la Torah.
Il termine Pentecoste, utilizzato dagli ebrei di lingua greca, si riferiva alla festa, conosciuta nell’Antico Testamento come “festa della mietitura e delle primizie” (Es 23,16), “festa delle settimane” (Es 34,22; Dt 16,10; 2 Cr 8,13), “giorno delle primizie” (Nm 28,26), e definita più tardi ‘asereth o ‘asartha, cioè “assemblea solenne” e, probabilmente, “festa conclusiva”: Pentecoste diventò, dunque, la festa per il raccolto e della fine della stagione che segue la Pasqua.
Per l’evangelista Giovanni, nel pieno della gnosi del suo tempo, il problema assillante è la conoscenza dello Spirito, ossia come riconoscere lo Spirito di Dio dallo spirito del mondo. E la risposta che offre è che lo Spirito di Dio parla di Gesù e, dunque, di Dio (La mia dottrina non è mia; Gv 7,16).
I grandi maestri della gnosi (come i grandi oratori di oggi) suscitavano, invece, interesse perché parlavano a nome proprio e si facevano un nome. Suscitavano grande impressione perché avevano qualcosa di nuovo e di diverso da dire al di là della Parola.
Lo Spirito di Dio, al contrario, scompare nel Figlio e questi nel Padre. “La natura dello Spirito Santo, unità del Padre e del Figlio è la dimenticanza di sé: in questo consiste la memoria. È l’autentico rinnovamento. Una Chiesa pneumatica è una chiesa che ricordando, penetra più in profondità nella Parola, divenendo così più viva e più ricca” (J. Ratzinger, Le Dieu de Jésus Christ, pp.118-120).
Secondo Giovanni, se la Parola del Signore dimora in noi (se osserviamo i suoi comandamenti), possiamo allora dire anche che amiamo il Signore. Se invece riconosciamo che il nostro cuore è ripieno di affanni, preoccupazioni, interessi, distrazioni, in una parola è ripieno di “io”, ecco non possiamo dire di amare Dio. È la semplice, ma esistenzialmente assai più complessa, formula dell’evangelista Giovanni.
In questa avventura spirituale, che è la vita di ogni credente, di ogni cristiano in stato di continua conversione, non siamo soli: alla comunità dei credenti (a voi) è donato lo Spirito, un Avvocato difensore, il Compagno di strada che rispettosamente ci prende per mano nel processo di svelamento dell’azione di Dio nella nostra vita.
A questo punto, è opportuno offrire al lettore un brano che può essere di aiuto nella meditazione della Pentecoste e dei doni dello Spirito:
“Lo Spirito santo è dono supremo di Dio. Finché non l’abbiamo ricevuto, il dono che il Padre ci ha fatto mandando nel mondo il Figlio unico non raggiunge pienamente il suo effetto.
[…] Conoscere lo Spirito significa innanzitutto sperimentare la sua azione, lasciarsi invadere dalla sua energia, rendersi docili ai suoi slanci; significa volerlo in maniera sempre più cosciente alla sorgente della nostra vita. Lo Spirito ci consacra al Signore, lo Spirito ci parla del Signore, ci fa vivere o morire per il Signore. Non si può conoscere lo Spirito come si conosce il Padre o il Figlio: lo Spirito non ha affatto un volto, e neppure un nome in grado di evocare una figura umana. Non ci si può mettere al cospetto dello Spirito, contemplarlo, seguirne i gesti. “Voi lo conoscete” dice Gesù “perché egli dimora in voi” (Gv 14,17). […] E’ in questa azione tutta in profondità che lo Spirito si rivela interamente.
Nell’Antico Testamento si manifestava soprattutto come una potenza divina che sconvolgeva il mondo. La sua azione, per quanto interiore fosse, rimaneva orientata verso la creazione. Certo essa aveva lo scopo di far risplendere la gloria di Dio, ma appariva sempre come la venuta da Dio e rivolta verso il mondo; eseguiva, infatti, la sua volontà, portava la sua Parola fino all’estremità dell’universo, irradiava sulla creazione.
Lo Spirito che si manifesta in Gesù e anima i cristiani non è meno attivo e meno creatore, ma la sua opera suprema è quella di orientarli a Dio, di suscitare in loro il dialogo con lui. Non solo lo Spirito viene da Dio, ma torna a Dio, fa parlare a Dio. Dio è al tempo stesso colui che ispira la preghiera dell’uomo e colui che la riceve” (J. Guillet s.j., Grands themes bibliques, pp. 179-180).
Lorenzo Jannelli
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