Introduzione alla lectio divina per domenica 13 dicembre 2015 – III d’Avvento – su Lc 3,10-18
Le folle lo interrogavano: «Che cosa dunque faremo?».[11] Rispondeva: «Chi ha due tuniche, ne dia (lett. condivida) una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».[12] Vennero anche dei pubblicani a farsi immergere, e gli chiesero: «Maestro, che dobbiamo fare?». [13] Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». [14] Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi che dobbiamo fare?». Rispose: «Non maltrattate e non estorcete niente (lett. non accusate per soldi) a nessuno, contentatevi delle vostre paghe». [15] Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo, [16] Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi immergo in acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non sono degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi immergerà in Spirito Santo e fuoco. [17] Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile». [18] Con molte altre esortazioni annunziava al popolo la buona novella.
Il brano del vangelo di questa settimana è la continuazione di quello di domenica scorsa e ci immette nel cuore della predicazione di Giovanni il Battista che si rivolge direttamente alle folle. Nella pericope della scorsa settimana Luca aveva presentato la figura di questo profeta, come una “voce di uno che grida nel deserto” (Lc 3,1-6), inviato da Dio a chiamare i popoli alla conversione e ad annunziare loro l’arrivo del Salvatore.
Nei versetti immediatamente precedenti al nostro brano, Giovanni il Battista aveva invitato con determinazione le folle a fare “opere degne di conversione” (v. 8) in modo da vivere coerentemente con il battesimo ricevuto. Ed ecco che le folle, sollecitate da questo invito e dall’immagine forte dell’albero che senza frutti viene tagliato alle radici (v. 9), lo interrogano sul come vivere concretamente la loro conversione. A questo interrogativo risponde la prima parte del brano, centrata sui “frutti della conversione” (10-14), mentre la seconda è orientata in senso messianico nell’“annunzio di Colui che viene e del battesimo in Spirito santo e fuoco” (vv. 15-18).
La domanda con cui si apre il dialogo tra Giovanni e le folle relativa a «Che cosa dunque dobbiamo fare?» è la stessa domanda che altre volte nel vangelo viene rivolta a Gesù da chi, come l’uomo ricco (Lc 18, 18) , cammina alla ricerca di Dio e chiede consiglio su come raggiungere la salvezza e la vita eterna. La presenza della congiunzione testuale “dunque” collega questa scena a quella immediatamente precedente in cui Giovanni aveva tuonato minacciosamente contro gli ipocriti che pensano di salvarsi senza produrre “opere degne della conversione” ma solo perché figli di Abramo, basando la loro possibilità di salvezza ad una appartenenza soltanto nominale, e induce a cogliere un piano di concretezza che nasce dall’urgenza di chi vuole manifestare nelle suo operato il cambiamento di mentalità che trae origine dall’incontro con l’annuncio della salvezza.
La risposta di Giovanni invita ad una prassi semplice, fondata sulla condivisione dei beni: «chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha, chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vestire l’ignudo, sfamare l’affamato o dar da bere a chi ha sete sono alcune delle opere di giustizia note agli ebrei e che in più luoghi dell’Antico Testamento sono ricordate da Dio all’uomo che intende camminare nelle sue vie.
Tuttavia, tali comportamenti non sono specificatamente cristiani ma affondano nell’umanità profonda che può unire credenti e non credenti a partire da un comune riconoscimento e rispetto della dignità della persona in quanto tale. Dunque, non una appartenenza attraverso precetti ma un ritrovare nell’autenticità del proprio essere uomo le radici profonde della propria conversione.
Proprio per questo, contro chi basa il proprio essere cristiano su una liturgia vuota, fatta solo di riti, digiuni e sacrifici, ma che non è capace di donare e donarsi all’altro, il Signore ricorda che il vero culto e la vera giustizia consistono nel «dividere il pane con l’affamato, coprire di vesti l’ignudo, accogliere in casa i senzatetto» (Is 58, 7-10) e ancora «non prestare ad usura e non esigere interesse, desistere dall’iniquità» (Ez 18,7-9). Una indicazione chiara a non ridurre il proprio cristianesimo ad un fare vuoto ma basato sulla condivisione di ciò che per noi è essenziale.
In particolare, la stessa domanda rivolta dalle folle è riproposta a Giovanni anche da alcune categorie specifiche di persone: i pubblicani, noti per i loro prestiti ad usura, e i soldati, avvezzi all’uso della violenza, da cui difficilmente ci si aspetterebbe una messa in discussione del proprio stile di vita. Proprio a questi ultimi Giovanni risponde con un’esortazione ad accontentarsi dei loro stipendi, a non maltrattare nessuno rinunciando alla violenza fine a se stessa. Le prassi indicate da Giovanni non sono fuori dal comune o dall’ordinaria quotidianità delle proprie esistenze, ma atti che scaturiscono da un comportamento onesto nel lavoro ed eticamente corretto verso il prossimo. Non si chiedono penitenze, pratiche ascetiche o riti speciali e nessuno è chiamato a spogliarsi delle proprie vesti o a cambiare lavoro ma semplicemente a vivere secondo giustizia il proprio ruolo nella società, tanto più quanto più si hanno posizioni che possono facilmente indurre alla sopraffazione o all’abuso del proprio potere. La condivisione dei beni, la giustizia, il rispetto del prossimo costituiscono la risposta e sono i frutti della conversione. In ciò possiamo osservare come per Luca la conversione non sia un fatto individuale che riguarda soltanto il singolo nella propria relazione con Dio ma sia realizzi soprattutto in una relazione con il prossimo. Giovanni indica la strada verso un’esistenza «autenticamente umana […] vissuta nella società» (Rossé, Il vangelo di Luca. Commento esegetico e teologico, 2001). Viene richiesto un atteggiamento di responsabilità nelle azioni quotidiane, dal lavoro alla vita sociale, innanzitutto nei confronti del prossimo che provoca un cambiamento concreto del proprio essere nel mondo.
Queste parole nuove che Giovanni annunzia direttamente al popolo “in attesa” fanno ipotizzare ai suoi seguaci che sia proprio lui il Cristo. La sua risposta contro questa falsa opinione diventa proclama messianico a tutte le genti: «Viene uno che è più forte di me». La superiorità del Cristo è rimarcata dalla condizione di servo indegno che Giovanni dice di sé, non degno neppure di sciogliere i legacci dei suoi sandali ma soprattutto la differenza tra Giovanni e Gesù è in funzione del diverso battesimo amministrato: in acqua, quello di Giovanni, in Spirito santo e fuoco, quello di Cristo. Entrambi comportano il superamento dell’uomo vecchio ma il primo è solo un’anticipazione del secondo in cui lo Spirito Santo porterà ad un discernimento profondo dell’animo del credente tale da dar luogo a una autentica conversione.
Luisa Amenta
Comunità Kairòs
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